La Comasina Col pensiero ancora ad Alfonsina Strada che oggi ha una via tutta sua a Milano cominciamo la lunga trafficata e frastornante vecchia via per Como, la Comasina. Inizia il nostro viaggio. Un brutto inizio, sotto al sole offuscato e madido di umidità, coi camion che ci sfiorano e un rumore continuo di motori che ci sfrecciano nelle orecchie. Dopo Valassina, dove una una targa ci ricorda che siamo a metà strada tra Como e Milano e che qui una volta si cambiavano gli asini perché la strada in leggera salita era troppo pesante, il traffico si dirada e lo sguardo può cogliere i vecchi casolari abbandonati, le insegne dipinte di osterie ormai scolorite, alternati a nuovi centri commerciali e giganteschi bingo. La miseria contadina doveva essere brutta ma mai come questi nuovi prefabbricati. Rimugino nella noia del rettilineo che i casolari facevano parte coi loro colori del paesaggio rurale, erano un tutt’uno in continuità con la terra, il cielo grigio, la nebbia d’inverno, ora questi capannoni di cemento si stagliano urlanti con le loro grafiche da Las Vegas dei poveri.

Cernobbio Una lunga discesa dopo 60 chilometri di falso piano in salita ci butta nel lago di Como o meglio sulle sue sponde e poi verso Cernobbio dove ci attende un alberghetto in cui lavare per la prima volta il pantaloncino da bici, col suo fondello inasciugabile. La prima vera salita la incontriamo la mattina dopo, salendo dal lago di Lugano verso Bellinzona, tre-quattro chilometri non di più ma con pendenza che non ci aspettavamo; un indiano che deve consegnare un take away ci supera con una bicicletta assistita e fa partire insulti irripetibili tra un respiro affannoso e l’altro riguardo alle biciclette assistite, agli indiani e a tutta l’India. Comincia qui la nostra guerra fredda alle biciclette assistite, ne incontreremo parecchie.

Bellinzona A Bellinzona Massimo e Michela ci ospitano per la nostra seconda notte. Lui era il suo capo e si sono conosciuti al lavoro quando lei aveva vent’anni. Ora hanno due figli grandi e sono un po’ zingari, hanno vissuto a Milano, a Roma, in Sardegna e ora sono a Bellinzona e gestiscono un bellissimo bed & breakfast. Massimo cucina da dio e va in giro alla ricerca di piccoli produttori di formaggio o di verdure e Michela che è l’addetta ai dolci ci prepara una creme brûlé fantastica. La mattina dopo a colazione ci presentano Christine. Fa la sessuologa, o come dice lei pedagoga sessuale, e organizza corsi per donne, perché: “C’è ancora tanto bisogno di conoscersi e di scoprire la propria sessualità e il proprio piacere” ci dice. “Ma vi rendete conto con che cultura maschilista siamo cresciute? La parola vagina vuol dire guaina, fodero, no ma vi pare? E sapete che tutte le parole tedesche per le parti intime femminili hanno come prefisso ‘scham’ vergogna? Non vi sembra assurdo?”.

Verso Airolo Pedaliamo con in testa vergognose guaine e vergognosi foderi per molti chilometri tra le campagne piatte e noiose che ci portano verso Biasca. Dopo Biasca la strada comincia ad arrampicarsi seriamente ed è quasi mezzogiorno. Il viadotto dell’autostrada altissimo sopra le nostre teste è la sola ombra che si proietta sulla strada a tornanti, benediciamo l’orrenda costruzione e ci fermiamo a bere le ultime gocce della nostra borraccia. Sandro è il gestore dell’unico bar nell’unica piazza di Faido e propone un unico tipo di panino, prendere o lasciare. Prendere. Nel bar di Sandro la birra costa meno dell’acqua gassata. Regola numero uno in Svizzera: calmierare i prezzi dei beni di prima necessità. Comunque l’acqua costa 4 franchi, tanto per cominciare a farsi un’idea dei prezzi in Svizzera. Partiamo con la promessa di mandare a Sandro una cartolina da Londra e con la sua risata in risposta alla nostra domanda sulle salite fino ad Airolo. Mentre mi maledico col fiato corto e penso alla pazzia dell’uomo che decide di prendere una bicicletta e opporsi insensatamente alla forza di gravità, mentre immagino il mio corpo abbandonato alla gravità di una sedia a sdraio su una qualsiasi spiaggia, si profila davanti a noi un tandem. Un uomo e una donna che alla velocità di uno all’ora vorticano i pedali rimanendo praticamente immobili. All’improvviso la nostra follia diventa quasi normalità. Ci sono persone che fanno cose al limite della mia capacità di comprensione. Questi davvero domani vogliono fare il San Gottardo?

San Gottardo La notte prima della grande prova fatichiamo a dormire. Tutti ci hanno messo in guardia: “è durissima, fate il San Bernardino, fate il San Bernardo, siete sicure?”. Ci svegliamo con un misto di eccitazione e paura e partiamo con un cielo che non promette niente di buono. E poi è pioggia, vento freddo e bellezza assoluta. La fatica la sentiremo domani quando ci sveglieremo con le gambe di legno, ma oggi è tutto uno stupore. Non avevo mai visto una strada così bella, non ci ero mai salita in sella a una bici. Ci fermiamo più volte per fare delle foto e per guardare la serpentina strettissima della strada che si inerpica sui sassi antichi. È una conquista arrivare in cima, senza fiato, con la pioggia che riprende a scendere dopo aver aperto degli squarci di sereno durante la nostra salita. Sul passo però fa veramente un freddo da morire e mentre mi immaginavo grandi festeggiamenti, foto e felicità, la realtà è che cerchiamo solo un riparo dal vento gelido. Invidio i turisti in auto che appena comincia a piovere si chiudono nell’abitacolo col riscaldamento a palla, non i tedeschi e gli svizzeri ovviamente che se ne vanno in giro in infradito e pantaloncini con 5 gradi e l’acqua che arriva obliqua, e mi dico che io se fossi una donna preistorica esposta a ogni genere di intemperie sarei già morta da un pezzo.

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