Eat more beef dice il cartello appoggiato sul palco, alle spalle del cantante.

Siamo a Ovando (leggi Oveeendo) paesino con otto case e 71 abitanti, secondo Wikipedia, territorio in cui vivevano i Blackfoot, uno dei più famosi gruppi di nativi americani.

È sabato e in Montana tutti fanno festa, scorrono fiumi di birra, si lustrano gli stivali da cowboy e si sfoggiano fantastici cappelli; il gruppo suona pezzi country, si balla. 

Arriviamo da giornate di lunghissime pedalate, quattro giorni di foreste, passi, salite su terreni duri di pietre, sassi quando siamo fortunate, terra battuta quando si sfiora il miracolo. Nei pezzi rarissimi di asfalto veniamo prese da una sorta di folgorazione religiosa e ci azzardiamo ad affermazioni come: Dio esiste sotto forma di asfalto!

Tra il sudore delle salite, la tanta, tantissima terra che solleviamo e ci si appiccica addosso e il sollievo felice delle discese abbiamo incontrato decine di scoiattoli, marmotte, cerbiatti, un alce con le sue corna gigantesche e un piccolo di grizzly che ci ha attraversato la strada, poco più avanti, lasciandoci pietrificate. Siamo restate cinque minuti buoni immobili in mezzo al sentiero a guardarci intorno temendo l’arrivo della mamma grizzly, poi ci siamo fatte coraggio e suonando tutte cinque le campanelle anti-orso siamo ripartite, pedalando come matte con l’adrenalina alle stelle. Io, addetta d’ufficio alla spray, mentre pedalavo buttavo un occhio alla bomboletta agganciata sulla forcella della mia bici provando a calcolare quanto velocemente sarei stata in grado di: disarcionarmi dalla bici, impugnare la bomboletta, strappare la linguetta di sicurezza, direzionare, allargare le gambe per essere più stabile, spraiare e salvare tutte. 

Abbiamo visto un grizzly continuavamo a ripeterci poi, abbiamo visto un grizzly!

Poi i balli country, poi dormire in una vecchia prigione diventata rifugio per i ciclisti, poi imbattersi in un rodeo a Lincoln di donne che sparano con due pistole ai palloncini, poi perdersi di nuovo sui sentieri non segnati e pedalare per dodici ore fino a Helena, poi mangiare sfinite l’ennesimo hamburger che è l’unica cosa che trovi ovunque, eat more beef, eat more beef.

In Montana, ci dicono tutti con un certo divertimento, i manzi sono più delle persone: due milioni e mezzo di mucche per un milione di abitanti.

Ramona è l’unica che ha ceduto solo a una fetta di salame, una sera di fame disperata in campeggio, Silvia e la Pez hanno ormai mangiato ogni genere di carne: costine, bisonte, bistecche, pollo, manca l’alce e l’orso ma solo perché non li abbiamo trovati ancora in menù. Io vorrei essere non carnivora ma spesso l’alternativa è una lattuga dura e insapore su cui vengono versati litri di salsa. Ci provo, la prendo, e poi ammorbo tutte mentre mastico svogliatamente: che cosa mangiamo a fare l’insalata che è per il 96 per cento acqua e cito articoli che sostengono che coltivarla rappresenti uno spreco di risorse enorme; è anti ecologico, anti economico… Insomma per pietà delle mie compagne di viaggio prendo un hamburger e provo a non lamentarmi anche della carne.

Oggi giornata libera a Butte, la più grande città industriale del Montana tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento con le sue ricchissime miniere.

Abbiamo avuto la luce prima di Newyork, nel 1917 vivevano qui 91.000 persone dicono gli abitanti con grande orgoglio, ma è l’orgoglio di chi volge lo sguardo malinconico al passato perché ora sembra di stare, perlomeno nella parte storica di Butte, in una città fantasma, piena di decadenza e bellezza, con le case di mattoni, le scale antincendio, le scritte al neon e le strade che vanno su e giù come a San Francisco. Qui Wenders ci ha girato un film nel 2005 e non ti stupisci perché camminare per queste strade è come essere su un set. Nel pomeriggio la visita obbligata a quello che si autoproclama il Museo Mondiale delle Miniere da cui esci stanca solo a guardare le foto dei minatori, ci servirà da monito domani quando staremo per lamentarci per qualche salita di troppo…

Del resto le fatiche del viaggio sono come le fatiche del parto, si dimenticano nel giro di poco e ci si rimette in sella. Il passato è passato, la salita pesantissima del giorno prima è archiviata, si sedimenta nel corpo ma la mente smarrisce le preoccupazioni e le paure e si proietta sulla strada là in fondo. 

La bici non è una sport per malinconici e quindi ciao malinconica Butte noi si parte verso il futuro con le luci intermittenti dei tuoi neon a colorarci la schiena.

 

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