Plumbeo.
Cirri, nembi, cumuli, strati, si sommano e sottraggono in un cielo che raramente lascia spazio a qualche raggio di sole. Pedaliamo come rabdomanti all’incontrario, sperando di non trovare l’acqua, inseguendo le tracce nel cielo di un possibile sereno.
Plumbeo, è l’aggettivo che accompagna la nostra osservazione del cielo la mattina prima della partenza, da almeno una settimana, ma oggi, grazie alle nostre giacche nuove per la pioggia, plumbeo suona un po’ meno sinistro.
Lasciamo Parigi all’inseguimento della famosa Avenue Verte, la ciclabile che dovrebbe condurci a Londra, partiamo di buona lena ma dopo una ventina di chilometri di periferia degradata, murales colorati e uomini che fanno jogging lungo il canale, siamo costrette a fermarci. Una chiamata dall’albergo di Parigi ci avvisa che abbiamo dimenticato il passaporto in reception. Silvia prende un treno e io rimango a Saint Denis con le bici, sembra la soluzione più veloce e logica per non perdere l’intera giornata. Il piazzale della stazione, che dopo un breve giro pare essere il posto più sicuro, sembra un mercato negli slum di Nairobi, lo slargo è affollato di piccoli capannelli di uomini di colore; chi spaccia, chi chiacchiera aspettando qualcuno o qualcosa, chi si ingegna cuocendo mini spiedini su griglie improvvisate appoggiate a carrelli del supermercato.
Sono l’unica caucasica in tutto Saint Denis, siedo in disparte in un bar cercando di sparire col mio pallore dentro alla mia sedia e fingendo di scrivere su un quaderno. Lo squallore delle due ore nella piazza comincia a entrarmi sotto pelle e il cielo minaccia pioggia, di nuovo, come se non bastasse. Arriva Silvia e ripartiamo ma la ‘giornata degrado’ non è finita e si conclude col pernottamento nel più squallido albergo del mondo, in una cittadina di cui scordo subito il nome, in cui c’è la più grande concentrazione di cinesi di tutta la Francia.
Ripartiamo la mattina cercando lungo la ciclabile che si snoda sulla Senna gli indimenticabili scorci che hanno ispirato gli impressionisti. Mi immagino Monet con il suo cavalletto e i colori alla ricerca del punto giusto sulla riva, tra il verde incontaminato, il punto giusto per farsi investire dalla bellezza del colore puro, dalla luce, della mutevolezza del paesaggio.
Ma oggi, dietro le fronde, mentre pedaliamo, sbucano solo cementifici e poli industriali con le ciminiere fumanti e l’unica cosa realmente impressionante è un rumore metallico, fortissimo, che ci accompagna per qualche chilometro.

Sorprese.
Le sorprese in Normandia sono molte, a cominciare dalle strade che ci aspettavamo tutte piatte (del resto la Normandia non dovrebbe essere un posto comodo per farci uno sbarco?) e che invece si rivelano dei continui saliscendi, alcuni piuttosto impegnativi. E poi le case dove capitiamo a dormire, due bed & breakfast bellissimi, uno pieno di quadri, l’altro di gatti. La prima casa è una villa di campagna piena di quadri e sculture di un pittore ottantaquattrenne. La moglie ha deciso di aprirla per ospitare viaggiatori da tutto il mondo, il marito è malato di parkinson e lei pensa che sia una bella idea essere circondati da stimoli nuovi ogni giorno.
Ceniamo con altri due ospiti su una tavola curata in ogni dettaglio, circondati da bellezza, arte, attenzioni speciali, cibo buonissimo.
L’anziano pittore si aggira a passetti per casa trascinando delle vecchie ciabatte finché decide di sedersi a capotavola e trasforma la cena in una serata surreale, fatta di silenzi e lunghi sguardi, di assenza e presenza. La moglie dice che lui non parla ma capisce tutto. Dopo cena ci porta a vedere lo studio dell’artista, riempito di opere fino al soffitto, riempito di donne viene da dire, perché il soggetto unico in mille varianti sono i corpi di donne nude disegnati, dipinti, il più delle volte fermati con un segno di matita fluido e ripetuto che cerca la forma; in mezzo alla stanza una poltrona: “sta seduto qui ore a guardare i suoi lavori, chissà cosa pensa…” dice la moglie mentre sta per uscire. Io sono attratta da un’opera in particolare e glielo dico nel mio francese stentato, lui si avvicina a passetti, mi fa un piccolo inchino, mi prende la mano e me la bacia. Non parla ma capisce tutto.

Lento.
Quando rientreremo a casa cercherò tra i miei libri La lentezza di Kundera. Mi è proprio venuta voglia di rileggerlo.
Dopo due settimane di esercizio quotidiano, sei, sette ore ogni giorno, la velocità del nostro mezzo è diventata la nostra velocità interna, una sorta di abito mentale, un’abitudine, una consuetudine che si è sedimentata via via. Così ora pare che anche i nostri pensieri si siano modellati sulla velocità delle nostre gambe, sul ciclico battere del nostro cuore, che pompa sangue ai muscoli.
Adesso, dopo due settimane, le macchine che ci sfrecciano a fianco pare che vadano a una velocità assurda, che prima non avevamo notato, fuori da ogni logica, dei pachidermi di migliaia di chili ci sfiorano lanciati follemente verso destinazioni troppo lontane per noi, destinati a sparire in un attimo dalla nostra vista di lumache. Ritrovarsi a Londra, in una grande città caotica, toglie il fiato, le macchine e le moto se non riescono a superarci subito ruggiscono dietro di noi impazienti, le biciclette scampanellano isteriche, perché anche le bici in città sono stressate. L’attraversamento si rivela faticoso ma la meta è vicina.
Nessuno sa dirci dove si trovi la statua di Emmeline Pankhurst e quindi vaghiamo nei pressi dei giardini di Westminster per un po’…
Quando finalmente la avvistiamo siamo emozionate e stanche, stanche e emozionate, i sentimenti si alternano e si confondono. Facciamo un po’ di foto e poi non ce lo diciamo ma il nostro viaggio è davvero finito. Risaliamo sulle biciclette che ora paiono leggere e con un po di malinconia percorriamo gli ultimi chilometri. Delle amiche ci aspettano per ospitarci per quest’ultimo giorno, domani laveremo le nostre eroiche compagne di viaggio e le manderemo a casa a riposare per un po’, chiuse in cantina, in penombra, a meditare sulle prossime avventure.

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