Qualcuno picchietta con le unghie, da fuori, sul vetro della finestra mentre sto dormendo. Noi cominciamo a partire mi dice quando mi alzo e socchiudo l’anta per vedere chi è. Si avviano in bici e io, anche se ancora mezza addormentata, comincio a prepararmi per raggiungerle.

Siamo sul pullman per Phoenix, le bici smontate e con le gomme sgonfie sono chiuse dentro un cartone, ognuna con il nome e l’indirizzo italiano scritto a pennarello, che non si sa mai. Dormono nel vano valigie, nella pancia del grosso veicolo. Dal finestrino il deserto sembra passare a una velocità folle, in realtà ci superarono quasi tutti, sulla highway, e quindi mi dico che dobbiamo solo riabituarci. Farci una ragione che questo bestione non lo dobbiamo mandare avanti con la forza delle nostre gambe. Possiamo dormicchiare anche noi, come le bici, farci portare, godere della comodità di questo sedile, cullarci nella noncuranza con cui si può affrontare ogni salita come fosse niente, quando hai un pedale da schiacciare sotto al piede. Invece sono irrequieta. 

Saranno queste giovanissime donne indiane e messicane, in viaggio da due giorni, che occupano quattro sedili a testa tra bambini e borse a cui proviamo a chiedere se ci liberano qualche posto, sarà la nostra abbronzatura da cicliste, sarà che fino a ieri pedalavamo otto-dieci ore ogni giorno, sarà che sono passati due mesi quasi da quando siamo partite.

Chiudo gli occhi. Sotto le palpebre saltellano le immagini delle ultime ore, prima del border del Messico, l’ultima pedalata cominciata all’alba con un sole velato da nubi striate e una montagna bellissima che sembrava fatta con la carta delle montagne dei presepi. Una strada con due curve a gomito in 70 chilometri e poi solo una striscia di asfalto dritta a perdita d’occhio, caldo terribile, appena le nubi si diradano, e una nostalgia mista a sollievo perché laggiù cominciamo a immaginare già la fine. 

Mi sforzo di ricordare tutti i momenti in cui ho maledetto l’idea di questo viaggio perché adesso con l’arrivo laggiù, i festeggiamenti dietro l’angolo e la retorica della vittoria, è troppo facile crogiolarsi nel piacere.

Ogni singolo schifoso bagno, ogni doccia in cui mi si sono rattrappite le dita dei piedi dallo schifo, ogni hamburger ingurgitato anche se era secco e le patatine riscaldate, quella volta che doveva esserci un ristorante e non c’era niente e abbiamo mangiato una fetta di pane con la marmellata che era l’unica roba che avevamo e la fatica mostruosa di spingere su uno sterrato irto come un muro la bici da trentacinque chili con le scarpe che sdrucciolano sulla terra e sui sassi e la mano destra che per la prima ora di bici si addormenta e il punto morto nel mezzo delle spalle subito sotto al collo con il sudore ghiacciato e le gambe di cemento e il paesaggio sempre uguale per ore e questa America che fa schifo e i recinti che non fanno più migrare le alci d’inverno e il sacco a pelo mummia e il vento contro e le città abbandonate e le lattine di birra buttate dalle macchine in corsa e le pedalate di taglio sugli stinchi e le zanzare e le zanzariere rotte e i cerotti per provare ad aggiustare le zanzariere e I can’t help you e le pistole e le mucche col numero tatuato a fuoco sul fianco e la grandine e i pini malati e i pini bruciati e nemmeno un albero per mangiare solo cespuglietti a perdita d’occhio e ancora una salita quando ti avevano detto che era tutta discesa e stai pedalando da nove ore e di salite ne hai fatte così tante che questa, signori, questa è una vera assoluta ingiustizia.

Io in questo viaggio, Io lo devo dire, mi sono adattata e ho resistito a cose che a me la resilienza mi fa una pippa. Anche se, lo devo ammettere, prima di essere nominata Regina universale della resilienza, ho usato dei trucchi. Ho tenuto in una tasca segreta tutte le cose belle che succedevano e le ho ripescate, come una figurina, come una caramella, ogni volta che stavo per crollare.

Ho tenuto le mucche fifone che scappavano al nostro passaggio, il piccolo orso che correva, i due cerbiatti fermi davanti a noi. Ho tenuto gli abbracci di Silvia quando non ce la facevo più e il suo sorriso quando mi aspettava più avanti per fotografarmi. Ho tenuto le discese che asciugavano il sudore e la fatica. Ho tenuto cinque minuti di stelle nel deserto prima che sorgesse la luna rossa all’orizzonte. Ho tenuto le mie gambe forti all’improvviso e inaspettatamente, come se avessero una benzina che non conoscevo. Ho tenuto il piacere di sdraiarmi, allungare la schiena e sentire i muscoli arrendersi. Ho tenuto l’eleganza delle donne con le pistole al rodeo. Ho tenuto il più bel motel del mondo a Butte. Ho tenuto una pizza col pomodoro San Marzano. Ho tenuto la luce dolce del sole al tramonto sulla cima delle montagne sopra a un canyon strettissimo con un fiume ruggente che scorreva sotto. Ho tenuto i fuochi che ho acceso ogni volta che potevo, con la legna da trovare in giro e i piccoli ramoscelli asciutti per accendere. Ho tenuto la notte in tenda a leggere Baol di Benni ad alta voce per Silvia perché eravamo troppo stanche per dormire. Ho tenuto tutti i cani che venivano a farsi accarezzare e quelli che passavano in piedi dietro i pickup. Ho tenuto una birra fredda. Ho tenuto il cielo azzurro con le nuvole enormi. Ho tenuto la doccia calda e le calze asciutte e pulite. Ho tenuto gli spazi infiniti che mi ricordavano qualcosa ma non so cosa. Ho tenuto la torta più buona del mondo a Pie Town. Ho tenuto le lavanderie a gettoni e i vestiti tiepidi e profumati. Ho tenuto la faccia di un ingegnere che ci ha aiutato per strada. Ho tenuto le insegne cadenti dei motel. Ho tenuto il sollievo della pioggia che smette. Ho tenuto la sensazione di non essere sola. Ho tenuto il conforto di essere amata e quindi di poter andare per il mondo. 

Qualcuno picchietta con le unghie, da fuori, sul vetro della finestra mentre sto dormendo. Dopo tre giorni, a Los Angeles, ancora sogno di dovermi mettere in bici e partire e se vedo qualcuno che passa per strada pedalando lo guardo con un misto di invidia e di arroganza: ehi, mi viene da dirgli, guarda che io sono stata selezionata per il premio Regina universale della resilienza, lo sai?