Dina ha 50 anni e una figlia di tredici, si è separata dal marito quando la bambina aveva otto mesi. È stato molto doloroso e complicato, una bambina piccola, un paese piccolo, ma Dina ha una sorella, Graziella, che le è stata molto vicina e tante amiche, è una persona che si è fatta sempre ben volere e alla fine poi è stato meglio così. Del resto il marito aveva deciso di lasciarla per la giovane assistente del suo studio. Fa il dentista, lui. Una donna più giovane non è una cosa facile da digerire ma sono cose che succedono, possono succedere, basta non farne un dramma.

Se le cose fossero andate così, se Francesco, il marito di Dina Dore, si fosse limitato a lasciarla, a chiedere il divorzio, se fosse andato avanti con la sua vita permettendo anche a lei di andare avanti con la sua, forse oggi non ci sarebbe una piazza a Gavoi intitolata alle donne. Pratza de sas Fèminas, liberas, rispetadas, uguales. Libere, rispettate e uguali declina al femminile un verso di una poesia di Peppino Mereu, Senza distinzioni di casta dobbiamo essere tutti figli di un simbolo, liberi, rispettati, uguali.
Eppure le due rappresentanti della commissione benessere sociale ci tengono a precisare che la piazza vuole lanciare un messaggio positivo, è dedicata a tutte le donne, alla loro forza, creatività, un invito a una cittadinanza attiva, un invito a intraprendere sempre più politiche per l’uguaglianza, delle quali purtroppo ancora c’è bisogno.
Non volevamo dedicare la piazza a donne morte per femminicidio, donne che qui a Gavoi ci sono state. Sarebbe stato un messaggio negativo.
Abbassano gli occhi vogliono cambiare discorso,
Ha segnato molto, è una ferita ancora aperta, riguarda tutti.
Ma più cercano di evitare l’argomento più io non riesco a fare altro che pensare a quelle donne a cui non si voleva dedicare la piazza, e più si parla di donne in generale più io voglio sapere i nomi e le storie di quelle donne in particolare.
Come l’elefante nella stanza a un certo punto non si può più fingere di non vederlo.
Dina Dore si chiamava, è successo tredici anni fa, è una ferita ancora aperta.
Abbassano gli occhi, cambiamo discorso.

Appena posso vado a cercare la storia di Dina, guardo le foto, leggo i dettagli, trovo addirittura una puntata di Storie maledette, e vedo la faccia del marito che ancora si dichiara innocente e vorrebbe giustizia per Dina, provo a immaginare la storia ambientata in quel piccolo paese della Barbagia in cui arriviamo per una sola sera nel nostro viaggio in bicicletta. Dovremmo fermarci in ogni posto per un mese, dovremmo sapere i dettagli, i nomi delle piante, accarezzare le pecore del sindaco, assaggiare il suo formaggio. Invece cerco tracce, si aprono spiragli, porte socchiuse che lasciano intravedere dei mondi troppo grandi e complicati, vorrei fare tante domande ma alcune rimarranno mute per l’imbarazzo, per la cortesia che si deve agli ospiti.

La mattina ripartiamo da Gavoi all’alba, le strade sono ancora deserte, fa fresco, durerà poco ma per ora la temperatura è perfetta, c’è profumo di finocchietto selvatico, di liquirizia, di mirto, a tratti arrivano del folate di aria salata come se il mare si insinuasse anche qui sulle montagne. L’asfalto porta le tracce del transito lento della pecore, ieri sera non siamo riuscite a vedere le duecentocinquanta pecore del sindaco, era troppo tardi, dormivano nella parte alta del loro pascolo. Ho letto che in Sardegna ci sono tre milioni di pecore per un milione e seicento mila abitanti.
Mi lascio trascinare dalla benefica forza di gravità della discesa, i pensieri si accavallano; tre milioni di pecore, De André e Dori Ghezzi sequestratati dalla anonima sarda, i primati sardi: la prima donna medico condotto, la prima donna sindaco, la seconda regione per numero di femminicidi.

Penso a Dina Dore che oggi avrebbe 50 anni e avremmo potuto incontrarla in quella piazza che forse avrebbe un altro nome, lei sarebbe stata una donna tra le donne, una donna tra gli uomini. Libera, rispettata e uguale.