Non so se i cavalli hanno la capacità di infondere calma o se Erica è così di suo. Una calma di quelle rare, globalizzanti, con tutti; con noi che le piombiamo in casa con un preavviso di poche ore, con i suoi bambini, con i lavoranti indiani, con gli animali della sua tenuta. Il marito non c’è ma immagino sia molto gentile anche con lui.

Siamo arrivate da poco più di mezz’ora, ce ne stiamo sdraiate a bordo della piccola piscina, mentre i bambini si tuffano nell’acqua gelata e Ettore, l’enorme cane di casa, cerca ininterrottamente di baciarmi, le chiediamo di raccontarci come è cominciata questa sua nuova vita. Sì, perché prima Erica viveva a Milano e lavorava come chimica in una grossa multinazionale e passava più tempo in Cina che a casa. Quello che si dice una donna in carriera, insomma.
Aveva una passione per i cavalli, montava, gareggiava.

Poi un giorno una cavalla impazzita al suo maneggio le mise addosso una strana agitazione. Cosa stava succedendo? Perché all’improvviso questo disagio?
Da quel giorno non è più riuscita a salire su un cavallo come prima. «Che poi i cavalli sono esseri gentili, ci racconta, ti assecondano, eseguono, saltano, gareggiano, vincono. Si adattano a furia di punizioni e forza. Ma che senso ha trattarli come mezzi di trasporto? Come fai se li guardi negli occhi?».
Così è partita per Lisbona per informarsi se esistesse un modo diverso per addestrare i cavalli. Esisteva.
Lì ha incontrato Brito. Un cavallo che non ne voleva sapere di essere domato e l’agitazione nata qualche mese prima è diventata un irresistibile impulso all’azione. Doveva trovare un posto per far vivere Brito in libertà.

Siamo a Manziana, vicino al lago di Bracciano. Erica ha 21 cavalli, un enorme maiale che ha sfondato il cancello della piscina e si è buttato dentro (si sono dovuti mettere in cinque per tirarlo fuori), parecchie galline, alcuni coniglietti bianchi e neri, due asinelli, due bambini, il cane Ettore, due gatti, un marito.
Qui Brito e altri 20 cavalli ogni mattina vengono strigliati con cura ed esaminati attentamente: le cicatrici, gli occhi, gli zoccoli, le zone delicate di ognuno che ormai Erica conosce a memoria.
Sembra un rituale quasi religioso, con gesti delicati e ripetuti come una liturgia, piena di mistero e sapienza.

«Li abbiamo fatti diventare degli esseri così delicati, mentre loro sarebbero forti e resistenti» ci dice Erica mentre esamina gli zoccoli senza ferri di un cavallo pezzato di cui mi sono scordata il nome. E poi dopo il rituale mattutino liberi tutti, fino al mattino dopo, di muoversi nel campo con gli altri cavalli, di corteggiarsi, di giocare, di cercare riparo all’ombra di albero, di andarsi a cercare il fieno nei punti in cui viene sparso.

«Così devono vincere la loro pigrizia e muoversi. Quando arrivano qui e gli togliamo i ferri non riescono nemmeno più neanche a camminare, hanno paura di tutto, sono completamente disorientati dalla libertà improvvisa che hanno».

Questa mattina prima di partire vediamo Erica con Francesco, il suo bambino di 6 anni, passare in rassegna i cavalli. Sono legati in fila come soldatini e Francesco passa dal primo all’ultimo a fargli una carezza delicata sul muso e dargli il buongiorno.
«I cavalli sono esseri silenziosi e prevedibili, basta conoscerli».

Mentre inforchiamo le nostre bici e ci dirigiamo verso Roma penso a questi esseri silenziosi che Erica tratta con tanto rispetto, penso al suo desiderio di renderli liberi, penso al fatto che ora li possa guardare negli occhi, penso a Kafka diventato vegetariano che all’acquario di Berlino guardando i pesci in una vasca disse: «Adesso posso guardarvi tranquillamente, non vi mangio più».

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