Ma sa fare una torta? Mi chiede quel cretino di giornalista, ma che domanda è? Alla fine dell’intervista poi, come se fosse la ciliegina sulla torta, appunto torta, sa fare una torta? Queste sono le cose che mi mandano in bestia, anche se George dice di non prendersela, non stare a sentirli dice, sai che la gente non ama le donne intraprendenti, non stare a sentirli dice, è solo un giornalista cretino. George, lui sì, sa fare torte buonissime, lui. E non fa differenze tra cose da uomo e cose da donna, non traccia linee tra quello che si può fare e quello che non si può fare. Sa fare una torta? Dio che nervi, come si fa a stare calma di fronte a tutta questa tracotanza. E poi dopo avere per ore elogiato il mio coraggio, ma che donna ardimentosa, che intraprendenza, te ne esci con la storia della torta? Ah davvero? Davvero pensi che ci voglia tutto sto coraggio a pilotare un aereo? No, mio caro signor giornalista ci vuole molto più coraggio a stare ogni giorno in ospedale, a fare l’infermiera, a fare quello che facevo prima. Ci vuole molto più coraggio a stare a guardare la morte in faccia, ogni giorno. A guardare negli occhi pieni di orrore i soldati che tornano dalla guerra, che non sanno nemmeno perché li hanno buttati a combattere; mutilati, devastati nel corpo e nello spirito, che vogliono solo un tuo sorriso per immaginare, per qualche secondo, tornare a credere, che ci sia qualcosa di piccolo e di buono nel mondo. Che tutto non si riduca a una carneficina di uomini innocenti buttati a combattere per conquistare, annettere, espandere. Solo un sorriso. E tu sorridi.

Ci vuole molto più coraggio a tenere la mano di un uomo che sta per morire, a cullare un bambino tremante per la febbre, un bambino che dovrebbe avere tutta la vita davanti e invece non avrà che poche ore. E tu signor giornalista mi chiedi dove prendo il coraggio di volare a cinquemila metri da terra? Quando mi stacco da terra e vedo tutto quello spazio libero, i confini, gli steccati, le righe su un foglio per dividere, le domande idiote e uomini e donne, o di qua o di là, tutto sparisce. Tutto il dolore e le ingiustizie mi scivolano via e posso finalmente respirare. No, no, caro signor giornalista nessun coraggio, solo un impellente, irreprimibile desiderio di respirare e spingermi sempre più lontana dal dolore, dalla morte. No. Non ho paura. Non mi fa paura morire, mi dispiacerebbe, ma non ho paura. Mi fa più paura non avere il coraggio di vivere. Vegetare, terrorizzati da tutto, come quei soldati. E mentre spingo il mio aereo sulla pista di decollo sorrido. Sorrido a me stessa, come sorridevo in ospedale, sorrido come a dirmi che qualcosa di grande e di infinitamente buono è lì per me. E rido, appena mi stacco dal suolo, rido di quel cretino di giornalista che si allontana e diventa un puntino e rido di tutte le torte che non so cucinare, di tutte le domande a cui non so rispondere.*

 

Pedaliamo nel sud del Colorado, nelle immense praterie desertiche, per ore e ore il paesaggio rimane lo stesso, sotto un cielo opaco per il caldo e per gli incendi lontani. Le mucche placide sono le uniche testimoni del nostro passaggio. In lontananza si cominciano a intravedere accampamenti con roulotte a cui si accede attraverso lunghissime vie che partono dalla strada sterrata principale. Le vie si chiamano Apache trail, Cheyenne road, Black Feet trail. Dopo qualche ora comincia a sorgerci il dubbio che da qui partano le riserve indiane, che quelle roulotte in lontananza siano accampamenti di nativi americani. La sera faccio un po’ di ricerche sfruttando il lento Wi-Fi del locale in cui ceniamo, e trovo conferma ai nostri sospetti: le riserve cominciano da qui anche se sarà nei prossimi giorni, in New Mexico, che ci addentreremo nelle aree con la storia di antiche battaglie e di indiani contro yankee. Di indiani e cowboy è piena la mia infanzia: gli indiani assolutamente cattivi e i cowboy bianchi, belli, un po’ dannati al limite, ma assolutamente buoni. E poi da adolescente invece i bianchi tutti cattivi e gli indiani povere vittime di genocidi e invasioni spietate. E Balla coi lupi e L’ultimo dei moicani. Penso alle loro riserve, protezione e esilio, alle sovvenzioni statali, al tasso di alcolismo, la disoccupazione, ai confini che rassicurano e soffocano. Agli indiani del passato, a cavallo con le piume in testa e i segni di guerra sul viso e ai nuovi indiani, con la pancia, che aspettano sonnecchiando su una sedia della lavanderia a gettoni, che la lavatrice abbia finito.

Indiani e cowboy, i buoni e i cattivi, questo bisogno stupido di sapere una volta per tutte cosa è giusto e cosa no, cosa deve stare dentro e cosa deve stare fuori, cosa è da uomini e cosa da donne, e la destra e la sinistra, e l’Inter e il Milan, e i vegani e i carnivori. Schierarsi, avere ragione. Oppure camminare sui confini, cambiare idea, avere dei dubbi.

Pedaliamo con le mucche come uniche spettatrici del nostro passaggio, valicando decine di cattle-guard, le griglie di metallo messe lì per impedire a qualche mucca ribelle di uscire dai propri confini. 

 

Amelia Earhart (1897- 1937)
La più famosa aviatrice della storia, mise da parte i suoi guadagni di infermiera ed assistente sociale, per pagarsi le lezioni di voli ed acquistare il proprio aereo personale. Nel 1922 stabilì il record d’altitudine per un’aviatrice donna, con il primato di 4.300 metri d’altezza. Nel 1932 riuscì nell’impresa di attraversare l’oceano con il primo volo transatlantico in solitaria, compiuto da una donna. Cinque anni dopo tentò la circumnavigazione intorno al mondo, ma scomparve misteriosamente nel Pacifico centrale, senza che il suo corpo e il suo aereo fossero mai ritrovati. Alla celebre aviatrice è stato dedicato nel 2009 il film Amelia.