Arriviamo a Ovando nel tardo pomeriggio, non ci sono stanze nell’unico albergo del paese, non c’è un campeggio; ci consigliano di dormire nella vecchia prigione che ora è diventata ricovero per i ciclisti di passaggio sulla Great Divide. Portiamo le nostre cose lì, cominciamo a sistemarci per la notte. Di fronte alla piccola prigione una casa, una vecchia casa di legno, con delle finestre che danno sulla strada, così piena di cose che sembra stia per esplodere. Davanti alla casa un uomo che sembra avere centoventi anni, e un cane. Immobili, seduti uno di fianco all’altro. La mattina ci svegliamo, cominciamo a prepararci per partire e l’uomo e il cane sono sempre lì. Immobili. Per fugare il dubbio che siano morti da mesi e nessuno se ne sia accorto, Silvia va a chiedere se può fargli una foto. L’uomo emette dei suoni che lei interpreta come: sì, certo, non vedevo l’ora di farmi fare una foto da te. Il cane annusa una gamba di Silvia. Quindi sono vivi. Forse solo non riescono più a entrare dentro casa; l’uomo, che da vicino avrà al massimo sessant’anni, si è fatto prendere un po’ la mano e ormai cosa vuoi fare?

 

Siamo alla cassa, abbiamo comprato il cibo per il prossimo giorno e mezzo in cui non incontreremo centri abitati, all’improvviso un mal di pancia di quelli da sudore freddo. Chiedo un bagno e mi indicano l’angolo in fondo al supermercato a destra. Arrivo quasi di corsa; nei bagni delle donne ci sono due scomparti con le porte di quelle aperte sopra e sotto, non il massimo dell’intimità. Apro quella dello scomparto donna / portatore di handicap che mi ispira più fiducia. Dentro una donna che ha dimenticato di chiudere. Sorry, mi dice sorridendo. È seduta sulla tazza, appoggiata comodamente con la schiena al muro e legge un libro. Nel bagno del supermercato. In fondo a destra. Con la porta aperta.

 

Facciamo dei gesti al quad che arriva di fronte a noi per farlo fermare. Vogliamo avere delle informazioni sulla strada che finora si è rivelata faticosissima. Dopo giorni di pietre, ghiaia, buchi, da qualche giorno fatichiamo soffrendo sul tôle ondulée, come lo chiamano in Africa, o washboard, come lo chiamano qui. Cunette regolari create dal passaggio delle auto sullo sterrato. Se non l’avete mai provato è un’esperienza che dopo qualche ora può mandare fuori di testa, salta il cervello dentro la testa, gli organi dentro il corpo. Il quad si ferma in una nuvola di polvere, ci avviciniamo e la donna anziana alla guida ci spiega che ha da poco visto passare dei nostri amici in bici. Le chiediamo della strada, di quanto chilometri mancano. Lei comincia a ragionare, si perde in lunghe spiegazioni, poi all’improvviso si blocca come folgorata: là, indica, là, un orso! Ci giriamo tutte fulminee a guardare il punto che ha indicato, Silvia e Ramona scattano a prendere le videocamere. Cerchiamo di mettere a fuoco il punto, la signora ha ancora il braccio teso, l’indice sicuro a puntare una massa scura ai lati della strada. Dopo qualche secondo ci rendiamo conto che l’orso è in realtà un tronco. 

Signora tranquilla è un tronco, non un orso.

No, no, ragazze vi sbagliate è proprio un orso.

Signora è un tronco.

È un orso.

È un tronco.

Niente, andiamo via con la signora che cerca di trattenermi per un braccio per convincermi che quello è un orso, che gli orsi possono stare fermi per ore. Vorrei convincerla a cambiare occhiali o fare un trattamento di disintossicazione dall’alcol, ma non vorrei essere scortese e la saluto mentre lei è ancora lì col braccio che sbraccia e l’indice che indica.

 

Gli ostelli sono posti in cui trovi gente che probabilmente non esiste più in nessuna altra parte del mondo, a parte negli ostelli, appunto. Un po’ come certi professori del liceo, che non potevi immaginare avessero una vita normale al di fuori della scuola, con quei vestiti lì e quei capelli unti. Appena entriamo nell’Ostello di Salida, bellissimo paesino nel sud del Colorado, ci accoglie un uomo sui cinquanta, iraniano, con una bella barba nera e il sorriso stampato perennemente sul viso, tipo: ma che bello vivere negli ostelli, solo noi che viviamo negli ostelli sappiamo goderci la vita ed entriamo in contatto vero con le persone. Sta cucinando broccoli nella cucina, che poi diventa sala, che poi diventa ingresso e quindi veniamo subito investiti dal delicato profumo della crocifera, oltre che dal suo buonuomore. Lui si muove come se vivesse lì da sempre, probabilmente è arrivato da cinque minuti, con lo strofinaccio sulla spalla ti spiega come usare la lavatrice e fa gli onori di casa. La sera accorda la chitarra con una app dell’iPhone per poi strimpellare per ore degli arpeggi che impari alla seconda lezione di chitarra, intercettando chiunque passi per entrarci in un contatto profondo e distillare qua e là, nel discorso, profondissime massime di vita. 

Never growup, dai retta a me, che se cresci sei perduta, dice guardandoti coi suoi scurissimi occhi iraniani.

 

Sì, lo so, vostro onore, è difficile da credere ma ho come testimone oculare Ramona. Uno scoiattolo ieri, uguale identico a Cip di Topolino, prima del passo Carnero, è scappato su una roccia al nostro passaggio ma poi si è fermato a guardarci e ci ha fatto ciao con la zampina. Non l’ha mossa e basta, ci ha fatto proprio ciao. E qualche giorno prima un cavallo a una nostra domanda se la strada fosse giusta ha fatto sì con la testa. E una mucca a cui Ramona ha urlato: ciao bella, ha ciondolato la testa, come per schermirsi, le mucche del Colorado sono timide. Lo giuro vostro onore non è la stanchezza, non è la fatica. Lo giuro. Ho qui una testimone che lo può provare.