La Calabria è aspra, dura, ripida, poi all’improvviso scoscesa, con discese a rotta di collo e poi di nuovo si impenna. La Calabria ci spezza le gambe, ci cuoce la testa, ci porta vicine ai nostri limiti, vicine a capire qualcosa in più di noi, su quel confine impreciso in cui la forza e la fatica si confondono, la debolezza e la tenacia intessono una fitta discussione, ancora cento metri, ancora duecento. Il cuore pompa e cerca un ritmo.

La Calabria è lì che ci parla dalle sue città arroccate, aggrappate alla montagna, «sono dei piccoli presepi», ci dice un frate missionario di Paola che ogni due anni torna in congedo per tre mesi in Italia e che incontriamo in un bar di Cosenza.

A Cosenza abbiamo cercato storie di donne, come sempre in questo viaggio. Pasquale che ci ospita con la sua famiglia, durante una fantastica cena calabrese, tra una melanzana alla parmigiana e un assaggio di ‘nduja, ci dice: la brigantessa Ciccilla!

Appoggiamo le posate e chiediamo di raccontarci di questa brigantessa calabrese. Io prendo appunti ma dopo qualche minuto mi fermo.

Bellissima ragazza dalle lunghe chiome e dagli occhi corvini, sposa di un brigante che ogni tanto scendeva dai monti per avere con lei dei furtivi incontri. Ma poi salta fuori che questi furtivi incontri li aveva anche con la sorella di Ciccilla. E quindi scatta la vendetta. Ciccilla invita la sorella a dormire a casa sua e durante la notte la uccide con trenta colpi d’ascia. Scappa a dorso di un mulo, raggiunge la banda del marito e ne diviene il capo. Temuta da tutti per la sua crudeltà e durezza.

Fermi fermi fermi.

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Non sono sicura che questa brigantessa mi piaccia, però l’idea delle brigantesse mi intriga, donne forti, che di fronte alla disperazione ribaltano il ruolo di rassegnazione e sudditanza e si dimostrano capaci di partecipare attivamente alla lotta contadina… Forse, mi dico, possiamo trovarne una più saggia e meno cruenta?

C’era Francesca, alla quale uccisero i figli, e pazza di dolore si unì a una banda di briganti. Quando in un’imboscata catturarono l’ufficiale che aveva fatto uccidere i suoi figli, gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante.

C’era Niccolina, la donna di un brigante violento e sanguinario che un giorno uccise il loro figlio neonato per paura che il suo pianto potesse attirare il nemico piemontese. Nel sonno sottrasse il fucile al suo compagno, gli fece saltare le cervella e lo decapitò. Consegnò la sua testa al governatore di Catanzaro, incassò la taglia e ritornò sui monti per sempre.

Niente, la lotta non violenta la lasciamo a Gandhi, queste donne calabresi sono come la Calabria. Dure, spietate, violente e bellissime.

Pasquale mi dice che i piemontesi decapitavano i briganti calabresi e collezionavano i loro teschi per studiarli. Erano convinti che nel loro cranio ci fosse la famosa spina.

Una spina che agiva sul cervello provocando aggressività e violenza.

«Cosa fate, mi state guardando la testa?», ci chiede ridendo e toccandosi la testa rasata. «Dite che ce l’abbiamo davvero sta spina?».

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