Il colore è un bel rosso intenso e il cameriere mi spiega, in un misto di spagnolo e inglese rigirandosi la bottiglia tra le mani, che il Carmenere è molto simile al Merlot. Il cameriere è cileno ed è molto orgoglioso dei suoi vini, ne parla come fossero suoi figli e si prodiga a elencarne i pregi e le caratteristiche, che definisce uniche.
Quando gli chiediamo di consigliarci il suo miglior vino non ha esitazioni: Carmenere, appunto.

Siamo all’inizio del nostro viaggio in Patagonia mentre avviene questa scena.
Ora siamo tornate da qualche giorno a Milano, io e Silvia. E una delle cose che ci mancavano di più erano forse proprio i vini italiani. Certo anche il cibo, con tutte le prelibatezze che solo in Italia si trovano.
Ecco, non so se si capisce il tono di che solo in Italia si trovano, ma io quando sono in viaggio non so cosa mi prende. Mi succede una cosa di cui quasi mi vergogno, perché mi sembra molto provinciale e stupida. Però senza che me ne accorga, se si comincia a parlare di Italia, a me scatta una sorta di campanilismo, di orgoglio patrio, di fierezza ispirata. Mancherebbe solo la mano sul cuore e l’inno che parte. E vi assicuro che io eliminerei i confini di qualsiasi territorio e che gli inni nazionali, con la loro pomposità, mi fanno quasi sempre ridere. Il fatto che io sia nata qui. in Italia, e non altrove è una pura casualità e quindi non vedo di cosa dovrei andare fiera.
Eppure se mi beccate all’estero ecco che il cuore mi si gonfia e comincio come il cameriere coi suoi vini cileni a parlare appassionatamente di quanti formaggi ci sono in Italia, della qualità unica al mondo dell’olio, del aceto, e la cucina Toscana? E la cucina siciliana?
E vogliamo poi parlare dei vini?

La scelta del rosso in questa seconda serata patagonica arriva dopo l’esperienza della sera precedente di un Sauvignon Blanc servito troppo freddo, veramente deludente.
In realtà parto prevenuta anche sul rosso. Ho un ricordo che mi gira in testa di qualcosa che scriveva Baricco a proposito dei vini cileni, sudafricani e californiani. Non che Baricco sia il mio faro ma quella cosa mi aveva convinto e mi è restata in mente.
Lui li chiama vini hollywoodiani, intendendo dei vini di grande effetto ma senza spessore, monodimensionali. Un’esperienza da consumare in un sorso e poi identica a se stessa per tutto il resto della bottiglia.
Un vino per gente che non capisce di vino, nato per gli americani, quindi per chi non ha nel proprio dna il vino ma i superalcolici o la birra, e poi esportato in tutto il mondo.
Io non sono un’esperta di vini e non so se la suggestione delle parole di Baricco abbia cambiato la mia esperienza diretta.
Credo però che i vini buonissimi che ho bevuto negli ultimi anni abbiano alzato la mia competenza di degustatrice di vini anche senza volerlo. È una di quelle cose da cui non si torna indietro, il vino buono.
Il Carmerere l’abbiamo bevuto, così come abbiamo poi provato vari Cabernet Sauvignon, un paio di Pinot Noir e un Malbec; sono andati giù, come si dice, alcuni non erano per niente male. Ma mi sa che il vino buono è un’altra cosa, ci siamo dette io e Silvia verso la fine del viaggio.

Negli ultimi giorni a Porto O’Higgins siamo state invitate da amici argentini incontrati qua e là durante il viaggio a mangiare il cordero patagonico, con grande felicità di Silvia è un po meno mia (se andate a cercare cos’è scoprirete perché). Viaggiavano col baule della macchina pieno di vino argentino. E mentre un amico stappava una bottiglia ha cominciato, con occhio ispirato e tono fiero, a parlare della bontà dei vini argentini rispetto a quelli cileni. Io stavo partendo a mia volta, nella gara di patriottismo, a parlare della assoluta supremazia di quelli italiani. Quando Silvia mi ha guardato con occhi supplichevoli, no ti prego. Giusto un attimo prima che partisse l’inno e la mano sul cuore…