Se nel 1924 ci fosse stato un concorso di Miss Italia che anziché misurare seno-vita-fianchi avesse misurato la forza, la caparbietà e il coraggio, Alfonsina Strada avrebbe indiscutibilmente indossato la fascia e il diadema di vincitrice.

Invece Alfonsina, Fonsina per tutti, non aveva vinto un bel niente, era una donna sbagliata, che non si era mai preoccupata di prendere le misure prima di fare, una matta come dicevano tutti.
Ma lei si sentiva una vincitrice comunque, anche se le urlavano puttana mentre passava con la sua bici e i pantaloncini corti. Lei era una vincitrice perché dopo mille tentennamenti avevano deciso di farla partecipare al Giro d’Italia. Con gli uomini. La matta.
Del resto come poteva non sentirsi una vincitrice lei che era cresciuta a Fossamarcia, che aveva nove fratelli, che suo padre faceva il bracciante ma doveva andare in giro a chiedere l’elemosina, che sua madre faceva la sarta ed era sempre incinta…

Ora si trattava di arrivare alla fine del Giro e dimostrare a tutti di che pasta era fatta, la matta.

Da quando aveva dieci anni e suo padre aveva portato a casa la prima bici da uomo, lei che non aveva mai avuto bambole né sogni, aveva cominciato a immaginarsi un giorno su un podio con medaglie scintillanti e gli applausi di tutti. Ma prima delle medaglie e degli applausi c’era la semplice voglia di andare, di pedalare, di correre come il vento.

«Lascia giù quella bici e vai a Messa!».
«Lascia giù quella bici e aiutami a rammendare!».

A rammendare poi aveva imparato davvero, era anche considerata una brava ricamatrice, ma quell’arte le era servita soprattutto per ricucire con estrema perizia le sue camere d’aria bucate. E anche quando da vecchia, ormai non più corridora, aveva aperto a Milano un laboratorio per riparare le biciclette, la sua specialità era insegnare ai ragazzi come usare ago e filo.

Ho pensato qualche volta alla Fonsina mentre pedalavamo sugli sterrati più polverosi, in Montana, in Wyoming; mentre vedevo le mie compagne davanti a me sparire nella nebbia alzata dalle jeep e dai pickup che ci superavano, mentre cercavamo di toglierci lo sporco che ci si era appiccicato addosso, la terra, il grasso della bici. Mi è sembrato spesso che il nostro viaggio attraverso gli Stati Uniti fosse un po’ un viaggio nel passato, al tempo in cui il ciclismo era qualcosa di sporco, reietto, faticoso ai limiti del disumano, i tempi di Alfonsina. Ho pensato alle sue gambe potenti che l’hanno portata fino alla fine del Giro, massacrata, piena di tagli e cicatrici. Ai suoi occhi con la congiuntivite che si arrossavano per la polvere e la fatica. Anche noi siamo cadute, ci siamo riempite di botte e graffi le gambe, abbiamo invocato speranzose che lo sterrato si trasformasse in asfalto, siamo morte di sonno alle otto di sera per tutte le salite infinite che ogni giorno abbiamo scalato.

E quindi questo lungo viaggio in un paese oltreoceano è anche per Alfonsina, che negli Stati Uniti non c’è mai potuta venire; per l’aria fresca che l’ha colpita in faccia la prima volta che ha spinto sui pedali e non si è fermata più, per tutte le volte che non è andata a Messa, per ogni volta che ha stretto i denti, quando la insultavano, ed è andata avanti, perché ha finito il suo Giro e sessanta uomini hanno mollato, per quella fascia e diadema che avrebbe meritato come Miss Italia 1924.
Che poi un diadema Alfonsina ce l’aveva davvero. Glielo aveva regalato uno zar, negli anni in cui aveva girato l’Europa e aveva avuto successo esibendosi in spettacoli di acrobazie con la sua bici.
Le vicine raccontavano che se lo metteva una volta all’anno. Il giovedì grasso. Andava in giro pavoneggiandosi e raccontando storie assurde, ogni volta diverse.
La matta.