Quindi l’aria polare irrompe nel Mediterraneo. Una massa d’aria che proviene dal Nord, scavalca il Massiccio Centrale francese, si incanala lungo la valle del Rodano, si accelera scendendo rapida sui versanti sottovento e sbam. In faccia alla Corsica. Sbam, in faccia alla Sardegna. Sbam, in faccia alle nostre facce a Sant’Antioco. Il Maestrale ci arriva in faccia, alla sprovvista, e ci fa tirare il fiato quando ormai sembrava che lo scirocco fosse un destino ineluttabile ed eterno, una punizione da cui non ci saremmo liberate per il resto del viaggio. E che io avrei lamentato per sempre, tranne all’alba e in una stanza con il condizionatore. E che Silvia avrebbe laconicamente liquidato a modo suo, ignorandone la portata e la capacità di incidenza sul suo corpo. Invece sbam il Maestrale e due giorni senza pedalare. Sant’Antioco e poi Chia, percorrendo una strada panoramica a picco sul mare. Di nuovo bellezza sfacciata, in primo piano, grandangolata, che ci mangia gli occhi da quanto è prepotente, che rende leggere le salite perché a ogni curva è lì che ci aspetta. Sbam bellezza, sbam maestrale che asciuga il sudore. Silvia si ferma ogni chilometro a fare foto e nella smania che abbiamo tutti di stilare classifiche, classifiche e liste, mi chiede se anche per me è la strada più bella fatta in bici.

Non mi chiedere le classifiche, lo sai. Non so dire il miglior libro che ho mai letto, il film più bello che ho visto. Non lo so, non mi ricordo, non sono preparata. E poi ci sono veramente troppi libri, troppi film, troppe strade. La Tremula che porta al San Gottardo, la strada nelle vigne dello Champagne, la costa del Cilento. So che poi me ne verrebbero in mente altre, forse più belle, e alla fine non saprei decidere. Non mi chiedere classifiche.

A Chia lasciamo le bici in un ripostiglio piccolo, nascosto, dell’albergo, e camminiamo, dimenticando le ciabatte, su dune coperte di piccole pietre, rametti e scogli taglienti, infliggendo una sofferenza ai nostri piedi dolci, che non hanno mosso un passo da settimane, chiuse nelle calze e nelle scarpe agganciate ai pedali, prima di immergerci in una baia e poi l’altra e poi un’altra ancora e tornare indietro a infliggerci piccole pietre e rametti e sabbia bollente. Poi arriva l’ultima sveglia all’alba che ci porta a Cagliari, su una strada che non ci da alternative e che è dritta, brutta, statale, a percorrenza veloce ma solo per le macchine che ci sfrecciano via spostando l’aria, mentre noi mendichiamo un pezzetto di carreggiata oltre la linea bianca laterale. Cagliari ci appare come una megalopoli dopo la nostra Sardegna, una città grandiosa, grande e magnifica. Impacchettiamo le bici, pronte per tornare in aereo con noi, e la visitiamo sotto il sole col Maestrale che si è zittito. I piedi nelle ciabatte battono strade mai battute. Tra poco ricomincerà il gioco un po’ logoro di tutti i viaggi paralleli, delle cose che abbiamo mancato per un pelo e avrebbero cambiato il nostro viaggio, delle cose che abbiamo rimandato, e delle cose che ho perso, oggetti al posto del controllo. Appunti mentali, sciabolate di scirocco, sberle di Maestrale, riemergono le parole prima delle strade, prima degli oggetti.

Sbam. Ciabatta. Perdo una ciabatta il secondo giorno. Era legata dietro alla bici. Cosa si fa con una ciabatta sola? Vaghiamo per Orosei e troviamo l’unico negozio di scarpe che ha esattamente quel modello di Birkenstock, del numero giusto, e un cane di nome Mandarino.

Sbam. Occhiali. Perdo gli occhiali da sole, tre giorni all’arrivo; non quelli da bici, quelli normali. In spiaggia in costume passeggio con improbabili occhiali specchianti verdi e montatura bianca come fosse una scelta di stile.

Sbam. La signora dei cestini. La signora Mariantonietta. Fa i cestini di asfodelo a Flussio. È una deviazione per andare a Santu Lussurgiu. Mettiamo la testa fuori dalla camera d’albergo, indecise, e lo scirocco ci fona addosso tutti i quarantuno gradi della giornata. Ci andremo un’altra volta.

Sbam. Pastora. Monica Saba. Deviazione di troppi chilometri in salita. Alleva la pecora nera di Arbus. Ha imparato dal nonno a fare la pastora. Non usa la macchina da dieci anni. Con gli scarti dell’agricoltura produce oggetti. Da bambina non beveva latte. La sentiamo al telefono.

Sbam. Santa Chiara. Le suore clarisse, suor Elisabetta che ci parla della Santa. Della sua determinazione gentile. Pugnale ricoperto di velluto. L’onomastico di mia sorella. La gita alla bancherella del mercato per comprare il vestitino della Barbie come regalo. Non c’è tempo per scrivere un racconto lungo sulle suore e su Santa Chiara ma prima o poi…

Sbam. La Fille Bertha. Murales a Cagliari. La incontra Silvia, io devo finire di scrivere un post che mi trascino da giorni. Silvia torna entusiasta. Non l’ha fermata la sua famiglia che le ha impedito di fare l’artistico. Voleva dipingere e alla fine dipinge, una delle pochissime donne in un mondo di muralisti maschi. Dipinge enormi facce di donna con la bocca piccola a cuore e gli occhi grandi spalancati di ciglia. Bertha era il suo cane di peluche quando era piccola.

Sbam. La settimana enigmistica. Un feticcio arrivato alla fine del viaggio. Distrutta. Piegata sotto agli elastici del bikepacking, con le ciabatte, ogni mattina. Non l’ho mai aperta. Non c’è stato tempo. Il tempo era comunque un altro, il tempo di quelle vacanze là, da bambini. Lo zio Giuseppe. Il toscano. La camicia di lino con le cifre. I suoi piedi piccoli dentro agli zoccoli panna del Dottor Scholl. Il Bartezzaghi finito con la sua grafia precisa.

Sbam. Sardegna come una infanzia. Vittorini. Il libro che volevo rileggere e che mi ha fatto sognare la Sardegna a quindici anni. Sul kobo, perché non c’è spazio nel bagaglio. Ho letto solo la prefazione di Michela Murgia che dice che è un viaggio nel tempo e non in un luogo, ma questo lo sapevo già. Lo leggerò adesso che sono tornata. Il tempo dell’infanzia; aperti al mondo con quell’immersione, quella densità, che fa diventare le ore giorni e i giorni mesi.

Dilatare il tempo, rallentarlo, starci dentro. Forse è questo il senso, per noi, di metterci in viaggio in bicicletta. Essere ancora quella bambina che ha imparato ad andare senza rotelle, che si è lanciata giù dalle rampe del cortile, che si è riempita di croste le ginocchia e i gomiti, che si è sentita padrona del mondo ogni volta che è scattata sui pedali veloce come il vento, più veloce dello scirocco, più veloce del maestrale.