Io pensavo fosse possibile solo nel deserto. Uno scirocco così, un caldo così.

Passando di fianco a un distributore di benzina vediamo un rubinetto, lontano dalle pompe, nello spiazzo assolato, un tubo di ferro che sbuca dall’asfalto con un rubinetto. L’acqua per qualche minuto è bollente, la facciamo scorrere finché diventa fresca e mettiamo la testa sotto, ci bagniamo le braccia e le gambe.

Ci sono 41 gradi e l’asfalto trema bagnato, in lontananza, come un’oasi, le folate di vento caldo seccano le labbra, disidratano la pelle. 

Scirocco in arabo vuol dire vento di mezzogiorno. Il litro e mezzo d’acqua a testa è quasi finito.

Rimettiamo il casco coi capelli che gocciolano sulle spalle, cerchiamo di raggiungere San Giovanni di Sinis per mangiare qualcosa. Siamo partite tardi da Santu Lussurgiu, tanto è tutta discesa. No, non è tutta discesa. È pianura infuocata che trema nonostante i capelli bagnati, nonostante le rassicurazioni che manca poco, non ci vuole niente, siete già arrivate, del signore che si ferma al distributore, che no non ha Facebook, no non ha Instagram e il nostro adesivo se lo rigira tra le mani senza capire bene cosa dovrebbe farsene. Ventinove chilometri, un’ora e mezza. 

Prima c’era Santu Lussurgiu, prima c’era la partenza intelligente da Bosa, prima c’era il coro di canto a tràgiu nella piazza di Bosa. Riavvolgo il nastro, avanti veloce, indietro, stop, play. Faccio avanti e indietro per non perdere il filo, perché pedalare con questo caldo cocente, che sì potrebbe cuocerci come un forno, come i forni solari di cui ho scoperto l’esistenza due giorni fa, pedalare all’alba o nella notte, per scappare dal sole, fa perdere la cognizione dei giorni. 

E quindi era Bosa, sì due giorni fa, con una fregola e un fritto misto da menzione speciale, che balzano in testa al miglior cibo mangiato finora, Bosa con le case colorate e la salita a piedi al castello, coi gatti che scappano e i bambini che improvvisano un chiosco con la limonata fresca, offerta libera o anche gratis. Bosa con la signora dei cestini di asfodelo che non incontreremo mai, Bosa con Gigi che ci spiega la differenza tra canto a trágiu e canto a tenore e che il cd prodotto da Peter Gabriel, negli anni in cui si era messo a cercare musica etnica nel mondo, era quello a tenore, ah peccato. 

E poi è la partenza alle sei del pomeriggio, che il forno solare è ancora acceso ma almeno sudiamo in modo umano, un sudore sostenibile, accettabile, in mezzo alle vigne di Malvasia col sole che in lontananza si riflette sempre più basso sul mare, fino a sparire per andare a fare il giorno dall’altra parte del mondo. E poi le foto coi murales di Tinnura, all’angolo prima di prendere una strada tra i campi di grano, dopo che abbiamo già fatto cinquecento metri di salita e ce ne mancano ancora più di seicento. Testa bassa e silenzio prima di incontrare gli asinelli all’inizio della salita che da Cuglieri ci porterà a Santu Lussurgiu col sole che sta tramontando adesso, e noi dobbiamo fare 8 chilometri, il buio a qualche chilometro dalla cima e il cardiofrequenzimetro che dice che sono stanca, che non ne ho più, il mio corpo va in accumulo di idrogeno e produce acido lattico. Nel silenzio assoluto del bosco senza una macchina per un’intera ora ci saranno i cinghiali? Questi scricchiolii, questi scalpiccii, niente campo, potremmo bucare, ma tutto è sullo sfondo, in primo piano protagonista assoluto il fiato corto e i muscoli tesi e duri. Se ci fossero tre teletrasporti disponibili in una vita uno lo userei ora. Ma poi so che se ci fossero davvero non lo userei nemmeno stavolta. 

Prima c’era Santu Lussurgiu. Di notte. In discesa che fa quasi freddo, il cuore si libera di sollievo, con l’acido lattico che urla nelle cosce e cinque diottrie in meno per l’aguzza la vista in discesa al buio con una lucina ridicola, così ridicola che non ha svegliato nemmeno i cinghiali.

Sudate, inadeguate, sguaiate. Varchiamo il portone ed entriamo con le bici nel cortile della dimora che ci ospiterà per la cena e per la notte. La bellezza guarisce tutto, occhi che bruciano e acido lattico, e riporta il cuore a battere in armonia con il creato. Arriva anche Orus. Gatto di casa che sta poco a casa perché deve comandare il mondo.

L’antica Dimora del Gruccione ha stanze meravigliose con oggetti che mi porterei tutti a casa, a cominciare dalla collezione di uccellini di ceramica, e una cura che mi commuove o mi commuoverebbe se non avessi così sonno.

Dove mi metti sto bene, dice Lucilla la sera mentre ci accompagna in camera. La domanda era: come si sta a Santu Lussurgiu arrivando da Milano? Dove mi metti sto bene, dice Gabriella la mattina dopo. La domanda era: come si sta a Santu Lussurgiu arrivando da Milano? L’ha detto anche tua figlia ieri sera. Ah sì? È stata a Milano, prima in Germania, la madre era sarda e aveva questa casa, il padre era di Verona. È una filosofa e ogni parola scelta con cura parla della sua formazione e delle sue scelte di vita. Ma conosci Piera Pia? 

Parliamo di orti sinergici, di curatela, di un mulino da recuperare, dei compiti delle vacanze che non ha mai fatto fare alle sue figlie perché in vacanza si va a fare la ricotta, delle donne amazzoni in Sardegna, delle selle laterali per le donne, di Eleonora D’Arborea, della grande mistificazione che si fa del matriarcato sardo. Poi partiamo, tardi, ma tanto è tutta discesa.

Io pensavo fosse possibile solo nel deserto.

Siamo qui mancano pochi chilometri, avanti veloce. Spiaggia di Maimoni. Stop.