Sfoglio il mio quadernetto con la mela di Enzo Mari in copertina. Cerco tra gli appunti del viaggio qualcosa che è restato in sospeso, una parola, uno spunto, per chiudere la narrazione di questa Andalusia in bici.
Il quaderno è sgualcito e sporco. Mi piace che sia un po’ sgualcito, che sia un po’ sporco, che ci siano passati sopra quindici giorni, quasi mille chilometri, le mani unte di grasso dalla catena venuta giù.
Mi piace che sia scritto a mano, con la mia calligrafia, le cancellature, i ripensamenti di cui rimane traccia. In un viaggio in cui il corpo detta legge, impone il suo ritmo variabile e imprevedibile, mi piace che anche la scrittura sia corporea e non quella fredda dei tasti di un computer, Times New Roman corpo 12.

Siamo sul transfert che da Almeria ci porta all’aeroporto di Malaga, facciamo, lungo la costa stavolta, la strada a ritroso per tornare al punto di partenza del nostro viaggio. Partiamo con la pioggia, una pioggia leggera ma insistente come quella che due giorni fa ci ha inzuppato mentre scavallavamo le colline prima di buttarci verso il mare.
L’autista guida tra le vie strette di Almeria come un neo patentato, lentissimo, prendendo dentro tutti i marciapiedi, controllando venti volte a destra e sinistra a ogni stop. Cominciamo bene.

Ci attende un lungo viaggio in aereo, faremo scalo a Francoforte e staremo in ballo fino a stasera.
Il viaggio anche questa volta finisce proprio quando abbiamo finalmente trovato il ritmo, mentale, fisico e anche di coppia. Di solito i primi giorni sono quelli degli scontri, del nervosismo, della paura dell’ignoto: ce a faremo? farà freddo? farà caldo? saranno troppi chilometri? E poi io recrimino che vorrei fare una vacanza sdraiata in spiaggia e Silvia recrimina che si è fatta il mazzo per preparare tutto il viaggio e allora dovevo dirlo prima…
Poi i rigidi confini che delimitano i nostri bisogni cominciano a farsi più cedevoli, Silvia accetta di fare un piccolo pezzetto in treno, ammette che forse ha esagerato a programmare tappe così dure all’inizio del viaggio, io accorcio lo sguardo e mi concentro sul pezzetto da fare, giorno per giorno, senza farmi spaventare dal totalone dei chilometri di ascesa, e ammetto che sì, ogni tanto mi lamento un po’ troppo. Alla fine l’equilibrio tra il mio provare a rallentare e goderci anche le pause e l’agonismo entusiasta di Silvia trova una sua quadra. E in due costruiamo un viaggio che da sole sarebbe tutta un’altra cosa.
Certo ci sono sempre i momenti che io chiamo Fiction di Raiuno, cioè quando Silvia prima di fare un video butta giù la scaletta di quello che dobbiamo dire. Allora io dico, tu dici, poi io ridico.

Ma cos’è la fiction di Raiuno?
Ecco tu boicotti i miei video!

Ma a quel punto siamo già entrate nel flusso del viaggio e possiamo ridere senza farlo diventare motivo di risentimento.

E poi c’è il momento in cui si torna a casa e il viaggio è quasi diventato un file da archiviare, ma ancora guardando fuori dal finestrino passano davanti agli occhi le immagini confuse, che hanno perso la loro scansione temporale.

Pietro I, Muhammed V, Alfonso X, o era Pietro V e Alfonso I, l’Alcazar col passaggi di regnati, figli, nipoti, pronipoti, la corona e la nostra bici monocroma, chiese cattoliche dentro a chiese arabe, i cattolici che scacciano gli arabi, gli arabi che si rifugiano sulle montagne e costruiscono delle case berbere con i comignoli a forma di fungo, i pueblos blancos, i pueblo che sono i popoli ma anche le città, gli aranci in tutte le vie e le arance per terra che nessuno le raccoglie, le jacarande da cui poi si ricava il legno di palissandro e arrivano dal Sud America che stanno fioriti giusto il tempo del nostro viaggio, l’odore acre dei fiori viola che appassiscono, le borracce con l’acqua calda e mezza pastiglia di sali, gli ulivi a perdita d’occhio e la Spagna leader indiscusso con un milione e qualcosa di litri di olio, la Grecia che ha superato l’Italia, Picasso che è nato a Malaga, Malaga che vuol dire sale, gli azulejos, il flamenco che è nato prima come canto che come ballo, che era un canto gitano, i vestiti della donna devono avere le balze e i pois, il vino fino che è fatto con due tipi di vino e uno è il Pedro Ximenez e l’altro perso per sempre in qualche meandro del mio cervello, le cicogne che speriamo abbiano svezzato tutti i figli sennò con sto caldo muoiono dentro ai nidi mentre aspettano il cibo, Arcos che si chiama Arcos per gli archi, Silvia che mi dice scrivilo è interessante, gli uomini che giocano a domino come se giocassero a carte, gli uomini che discutono di calcio, Ronda che poi vuol dire giro ma anche rotonda, i tori nelle loro celle strette un attimo prima che si sollevi lo sportello, la Plaza de Toros, la tauromachia, il papà di Miguel Bosè, Almodovar che poi è un castello in lontananza che se fossimo state in macchina saremmo andate a vederlo, le piante di capperi che strisciano invadendo l’asfalto coi loro fiori bianchi, il tinto de verano, il vino tinto, la sabbia che è l’arena, l’arena che è l’arena, i cani alla catena, i cani nelle gabbie, i perros de agua, la domenica che si ferma tutto ed è la morte civile, le piante benedette che fanno ombra, la pianta del piede che dopo otto ore di bici urla di dolore.

Intanto l’autista tiene l’occhio a mezz’asta, lo vedo dallo specchietto e lui vede me che lo vedo e cerca di darsi un contegno, si scuote, piega il collo a destra e a sinistra, spalanca bene gli occhi. Poi dopo cinque minuti fissa di nuovo la strada con l’occhio vitreo con l’attività dell’encefalogramma quasi a zero.

Todo bien?
Todo bien, todo bien.

Sì certo, todo bien, cristo ma se ti viene sonno quando guidi e prendi tutti marciapiedi nelle vie strette perché fai l’autista?
A un certo punto la radio non prende più nessuna frequenza e il ronzio di fondo concilierebbe il sonno a chiunque figuriamoci a questo qui che già di suo è morto di sonno da un’ora.
Per fortuna manca poco all’aeroporto, posso finire di scrivere quest’ultimo pezzo mentre butto occhiate preoccupate allo specchietto.

Allora, dicevamo, quante erano le colonne della mesquita?