“Gli agrigentini mangiano e bevono come se dovessero morire domani, ma costruiscono come se dovessero vivere in eterno”.

Così scriveva, nella sfarzosa Akragas del V secolo avanti Cristo, il filosofo Empedocle che proprio ad Agrigento era nato e conosceva profondamente l’animo dei suoi concittadini, smaniosi di lasciare una grande eredità di bellezza e di magnificenza.

Alice ci ha scritto qualche giorno fa per proporsi come guida nella Valle dei Templi. Abbiamo accettato con entusiasmo ma anche un po’ spaventate perché a volte queste visite guidate diventano lunghe e noiose. Bastano pochi minuti per capire che non ci annoieremo e che Alice è divertente, competente come pochi e ha pazienza da vendere per resistere all’assalto delle nostre continue domande.

Esordisce con la frase di Empedocle sugli agrigentini e già ci piace.

Puoi ridirmela che me la scrivo? Te la mando poi via whatsapp.

Grazie a lei facciamo chiarezza una volta per tutte tra fenici, punici e cartaginesi, sugli spostamenti delle colonie e delle subcolonie greche all’interno della Sicilia, sulle attribuzioni dei templi, la sezione aurea, l’uno punto sei, le U lungo le colonne per incastrare le corde e sollevarle, l’ecatombe che non era ancora in senso figurato ma voleva dire davvero l’uccisione di cento buoi durante le feste propiziatorie.

Passeggiamo tra i templi immerse in una luce abbagliante, il sole tinge di un giallo intenso il tufo arenario, i mandorli sono già in fiore, un ulivo si torce da cinquecento anni davanti al tempio della Concordia; siamo stordite da quanta bellezza possa stare in un unico posto, da questo regalo di primavera, di abbondanza, mentre a Milano è pieno inverno, fa freddo e c’è la nebbia.

Io lo capisco Goethe che nel suo viaggio in Sicilia cadeva giù svenuto tipo Stendhal, io la capisco questa vertigine che può prenderti. L’abbiamo provata qualche giorno fa guardando il Satiro danzante, di cui non sapevamo nemmeno l’esistenza e che ci ha lasciate a bocca aperta, a girargli intorno per capire da che prospettiva era più bello. E poi Selinunte col mare che brillava sullo sfondo e oggi Agrigento, un tempo Girgenti, un tempo Akrabas. Non lo so se le cose nuove, se i posti nuovi possono essere belli in quel modo lì. O se il fatto che siano belli da secoli crei quella vertigine.

Ma poi giri l’angolo e con la bici ti imbatti nei rifiuti buttati a montagne davanti al mare, cibo, vestiti, materassi e frigoriferi che si capisce sono lì da anni a marcire, strade con delle voragini in cui potresti sparire, interi paesi con le case senza intonaco che sono uno schiaffo a Goethe, una sveglia a Stendhal dalla sua meraviglia catatonica.

La fortuna della Sicilia è che la bellezza straripante del passato si insinua ancora oggi tra le crepe delle case fatiscenti, tra le incrostazioni arrugginite dei balconi, come uno spiffero tra i serramenti di alluminio anodizzato. E dove non arriva il passato c’è la natura coi muri di fichi d’India carichi di frutti rossi, i cactus altissimi come alberi, le agavi che crescono sui cigli delle strade e puntano le foglie carnose verso il cielo. Il mare che sbuca fuori dappertutto all’orizzonte o vicinissimo mentre pedaliamo.

Mentre in discesa ci allontaniamo da Agrigento penso che qui, quando si chiamava Girgenti, è nato un uomo geniale che ho amato moltissimo da adolescente. Che le cose che ci hanno appassionato nella nostra formazione rimangono come un marchio a fuoco per tutta la vita. Che lui è il primo di una lunga serie di siciliani che sono i miei marchi a fuoco.

Caro Luigi, ti scrivo per dirti che, anche tu, come gli agrigentini di Empedocle, ci hai lasciato una grande eredità di bellezza e di magnificenza. Anche tu hai scritto come se dovessi vivere in eterno. E così è stato.