Si dice che ci siano tre modi per uscirne vivi, quando cominci a soffrire il mal di mare. Fissare intensamente un punto molto vicino, fissare la linea dell’orizzonte e non mollarla mai, stare sdraiate a occhi chiusi sperando che un buco nero ti risucchi e ti risputi sulla terra ferma.

Sembrava una bella idea prendere il traghetto da Genova a Palermo. Avremo tempo per leggere visto che non ci sarà connessione. In cabina non dovremo tenere la mascherina a differenza dell’aereo e del treno. Non dovremo imballare la bici. L’entusiasmo dura venti minuti. Appena la nave lascia il porto di Genova e si avventura in mare aperto prende forma una variabile che non avevamo valutato. Il mare mosso.

Decido di optare per la posizione supina e il buco nero a parte deambulare verso il bagno e nei corridoi fino al ristorante per procacciarmi il cibo. Passo 21 delle 22 ore di navigazione dormendo e leggendo. Silvia ardimentosa fa un paio di capatine al bar e poi sul ponte per il tramonto. Io leggo in un giorno Tre piani di Eshkol Nevo che mi ricorda Un divorzio tardivo di Yehoshua. Me lo divoro. 

Nell’unica mezz’ora sedute per mangiare assistiamo all’edificante scenetta messa in atto da un’intera famiglia per convincere una bambina di tre anni a mangiare il suo hamburger con le patatine. Mangia, dice la mamma, se non mangi papà non ti compra più nessun gioco. Il papà, un uomo di cinquant’anni con tatuata all’interno dell’avambraccio la scritta La famiglia, la guarda severo. Mangia! No? Nessun gioco allora. Ricatto e consumismo in un colpo solo.

Quando scendiamo a Palermo, con due ore di ritardo, abbiamo il mal di terra. Dopo una notte in un letto che non ondeggia Silvia si sveglia e vomita l’anima, io ho un mal di testa pulsante. Partiamo non proprio in splendida forma in una Palermo che sembra primavera, con una luce che ci acceca dopo la nebbia di Milano, mentre dai finestrini delle macchine si sentono conversazioni sulle file interminabili per fare i tamponi. Anche qui.

Dopo le foto di rito davanti alla Cattedrale che non smette mai di impressionarci ci alleggeriamo di uno strato di abbigliamento e partiamo con mille occhi nel traffico disordinato.

Usciamo da Palermo coi suoi scorci di abbagliante bellezza e i suoi cassonetti straripanti e ci dirigiamo verso Mondello. Fa caldo, la spiaggia è piena di persone che passeggiano e cani che corrono sulla battigia. Ci fermiamo solo un attimo perché la strada è ancora lunga. Davanti all’Isola delle Femmine facciamo una foto e ci ripromettiamo di cercarne la storia. Stiamo ancora parlando dell’isola mentre pedaliamo in fila Indiana quando un uomo con una vespa arriva dietro di me, rallenta e appoggia la sua mano sul mio culo. Non è una pacca o uno schiaffo dato in corsa, è una mano appoggiata con comodo per soppesare il mio culo. Mi giro di scatto spaventata e incredula. Oh ma sei scemo? Lui mi guarda con l’occhio languido come se gli avessi detto grazie e mi dice: posso conoscerti?

Si narra che l’Isola delle Femmine fosse un tempo una prigione occupata solo ed esclusivamente da donne. Tredici fanciulle, essendosi macchiate di gravi colpe, furono imbarcate dai loro parenti su una nave senza nocchiero e lasciate alla deriva. Vagarono per giorni e giorni in balìa dei venti e delle onde finché una tempesta scaraventò l’imbarcazione su un isolotto nella baia di Carini. Qui vissero sole per sette lunghi anni fin quando i parenti, pentiti della loro azione, le ritrovarono e le riportarono a casa.

La grave colpa di cui noi donne continuiamo a macchiarci è di pretendere che il nostro corpo sia inviolabile. Vagare in balia dei venti, delle onde e di una mano che presume che il tuo culo sia a sua disposizione: questo è il nostro destino immutabile?

Mi sale una rabbia mentre l’isola si allontana sempre più piccola nel mare, andiamo a dormire pensando che dobbiamo continuare a pedalare in giro per il mondo, che dobbiamo essere fiduciose. Ci sarà un giorno in cui saremo libere, fuori dalle prigioni in cui siamo relegate nostro malgrado. Sarà il tempo in cui chi oserà una parola di troppo, uno sguardo, una mano troppo lunga verrà risucchiato nel buco nero del mal di mare e tenuto prigioniero su una nave in tempesta per almeno sette anni.