Cerco avanti e indietro nelle pagine. A un certo punto mi arrendo, non la trovo, forse era nel film e non nel libro?

Siamo tornate da tre giorni, dodici ore di volo, un’ora di attesa ai bagagli di Milano Linate per riavere le nostre bici, e poi mangiare gli spaghetti al pomodoro, dormire nel nostro letto, e poi lavare tutto, biciclette, vestiti, borse, scarpe, zaini; toglierci di dosso tutta la polvere accumulata in un mese di sterrati e di aria della Namibia. Oggi abbiamo ritirato fuori le bici da città e sistemato in ripostiglio le bici ripulite e oliate.

Ma forse non è ancora tempo per archiviare questo viaggio, ancora un po’ di polvere è restata ad appannarci la vista, granelli infilati negli angoli più remoti degli occhi, che graffiano quando la palpebra si chiude.

Solo una volta arrivata a casa mi sono ricordata de La mia Africa,; ma come? L’avevo amato così tanto e me ne sono dimenticata? Avrei potuto rileggerlo in viaggio. Il film al cinema e poi il libro letto e riletto fino a consumarlo. Per me Karen Blixen avrà per sempre la faccia di Meryl Streep. Era il 1985. Mi abituerò mai a pensare che ho visto un film 37 anni fa, senza sentire quel misto di sgomento e incredulità?

Ad ogni modo lì si parlava di Kenya, di masai, ma c’è un frase, uno stralcio, che non trovo e che parlava del tempo, del destino, del fato.

Gli ultimi giorni in Namibia sono tornati all’insegna del turismo convenzionale, non più luoghi sconosciuti in cui eravamo gli unici turisti ma di nuovo nel circuito rassicurante dei luoghi di attrazione.

Outapi? Come mai siete stati a Outapi?

E in effetti passare da villaggi caotici, poveri e sporchi a mangiare polli striminziti, serviti in pirofile con le proprie interiora, il collo, le zampe, perché giustamente non si butta via niente, a lodge dove ti servono il filetto con le verdure tagliate a forma di fiore, fa un certo effetto.

Siamo all’Etosha National Park. Gli animali, finalmente. Gli animali dell’Africa intendo. Perché le capre, i cani, le mucche, gli asini, i maiali, di quelli erano piene le strade da quando abbiamo lasciato la costa e ci siamo dirette a Nord.

Lungo la strada un giorno abbiamo visto due giraffe, qualche struzzo, la schiena di un babbuino in lontananza, qualche springbok. Niente di più.

Il parco è un’area di 20 mila chilometri quadrati, nel 1907 quando venne inaugurato era di 100 mila chilometri quadrati ed era la più grande riserva faunistica al mondo.

Si parte con la guida all’alba su un furgoncino da dodici persone tutto aperto, ci saranno 5 gradi, l’aria gelata ci frusta in faccia. Tutti ci stringiamo nei poncho con cappuccio messo a disposizione dalla guida che sfreccia sugli sterrati che portano all’ingresso del parco. Niente, qui si continua a far finta che l’inverno non esista.

E finalmente gli elefanti, i rinoceronti, le zebre, le giraffe. Una famiglia di manguste. Centinaia di springbok e kudu. Appostamenti lunghissimi per aspettare che un leone si stiracchi, o si rotoli come un gattone sulla schiena.

La bellezza di poter vedere a pochi metri l’occhio dell’elefante che mastica le foglie di acacia o la giraffa che si muove lentamente e poi fa piccoli scatti, bilanciando lo slancio col suo lungo collo.

Se potessi stanare lo stupore sepolto sotto pesanti macerie di pensieri, se potessi godermi davvero la vista di questi animali incredibili, perché è incredibile che esistano specie così bizzarre, così varie, con disegni del manto così perfetti, anziché ragionare su come sarà per loro avere dei confini, stare chiusi in un parco, essere inseguiti in questo zoo gigante da individui invadenti che con lo zoom cercano il tuo profilo migliore.

Sono giorni ormai che il tema degli animali mi assilla.

Penso alle capre che abbiamo visto in uno spiazzo fuori Opuwo con le zampe davanti legate per non farle andare in giro. Ai cani scheletrici, che si muovono a scatti lungo le strade, con la coda tra le gambe, ai maiali che mangiano la spazzatura, al cane di Hylia che non ha un nome, al maialino rinchiuso in un recinto piccolissimo per un anno nutrito ad angurie, a una capra legata per le corna lunghissime dietro a un pickup lasciato al sole per ore.

Penso alla pietà che si dovrebbe agli animali, anche in un posto povero, anche quando sono fonte di cibo, anche quando quella stessa pietà non c’è nemmeno per i bambini, per le donne, per i vecchi. Cosa pretendi mi chiedo?

Penso ad Aldo Capitini, fondatore nel 1952 della prima società vegetariana italiana, che scrisse: «Non sono lontano dal pensare che gli uomini arriveranno veramente a non uccidersi tra di loro, quando arriveranno a non uccidere più gli animali».
E diceva che anziché dire cosa mangiamo oggi? Dovremmo dire chi mangiamo oggi?

Penso a Anna Maria Ortese che nel suo libro Piccole Persone, si riferisce agli animali come a dei fratelli più piccoli e indifesi, scagliandosi contro l’uomo che con la sua arroganza e la sua attitudine a essere torturatore e padrone continua imperterrito a ignorare che lo sfruttamento e il massacro degli animali è una ferita antica e il nostro grande peccato originale.

Penso agli ultimi esemplari di rinoceronte bianco scortati da guardie armate per proteggerli dai bracconieri.

Alla petizione che ho firmato assieme a venticinquemila persone per salvare 17 maiali destinati ingiustamente al macello.

Noi distruttori, noi protettori. Noi che mettiamo steccati per dividere, separare, dimenticare che siamo animali come tutti gli altri. Noi che classifichiamo le specie per tenere una distanza, che ci mettiamo in cima alla piramide e disponiamo della natura a nostro uso e consumo.

Ho guardato per tutto il viaggio con curiosità, ma anche una certa malcelata superiorità, all’atteggiamento dei namibiani che abbiamo incontrato; per strada, come inservienti nei lodge, come responsabili di piccole attività. Noncuranza, rassegnazione, fatalismo. Ma, mi sono chiesta, nessuno ha voglia di diventare imprenditore, di cambiare il proprio destino?

E come fa la bicicletta a portare un’idea di futuro quando qui siamo catapultati nel passato. Come i nostri nonni, poveri, disperati, a cercare di tirare sera, a diventare adulti già da bambini, a essere trattati come bestie e a trattare le bestie come cose.

La bicicletta qui è solo un mezzo di trasporto per andare più veloci che a piedi, se avessero una moto o una macchina userebbero quella.

Perché non possono fare tesoro di tutti i nostri errori? Perché la storia si deve ripetere? Ma ripetersi con la plastica, internet e il consumismo nella sua fase più insidiosa.

Poi tornata a casa ho pensato alla smania che ormai ha preso tutti noi occidentali, che questa idea di forgiare il proprio futuro, di avere ambizioni continue, di rendere la propria vita speciale, sia un tentativo di sottrarci al nostro destino biologico, ritenerci esseri celestiali e non animali, strapparci con la luce abbagliante della ragione all’oscura ineluttabilità del fato.

I bianchi cercano in tutti i modi di proteggersi dall’ignoto e dagli assalti del fato; l’indigeno, invece, considera il destino un suo amico, perché è nelle sue mani da sempre; per lui in un certo senso, è la sua casa, l’oscurità famigliare della capanna, il solco profondo delle sue radici.

Eccola. Ho trovato la frase di Karen Blixen, quella che parlava di destino. Io non so se abbia più senso sentirsi parte della natura e di un disegno più grande di noi e quindi lasciarsi cullare in questa impotenza cosmica, oppure se la libertà significhi proprio ridisegnare la nostra vita sui nostri talenti, sulla nostra vocazione, liberandoci dal destino che qualcun altro a pensato per noi.

Ma mentre passavamo con le nostre bici come due marziane per le strade polverose, incontravamo i bambini e le bambine, prima si fermavano imbambolati a guardarci, poi rispondevano ai nostri saluti e ridevano provando a inseguirci.

Ecco, io mi sono immaginata che come nei miei occhi di bambina sono restate impresse immagini che mi hanno scrollato e mi hanno fatto baluginare un desiderio, noi e le nostre bici possiamo aver fatto un miracolo simile su una strada piccola e insignificante di un continente grande e antichissimo. Che una bambina con la legna in testa abbia visto qualcos’altro oltre alla polvere e alla fatica.

Che anche lei si sia potuta togliere dei granelli di polvere che sono restati sotto alle palpebre. Incastrati tra le ciglia.

Che quei granelli smettano di graffiare, che il passato smetta di ripetersi sempre uguale.

 

Foto Pietro Suglia/Silvia Gottardi