Vedete le zampe della giraffa? Hanno cinque dita come quelle umane e anche il leone ha cinque dita e la coda sembra una mano, vedete?

La nostra guida ci mostra con un bastone sottile i dettagli dei più famosi tra i duemila animali incisi sull’arenaria. Siamo nel sito archeologico di Twyfelfontein, che vuol dire fonte incerta, patrimonio Unesco, quindi ci siamo dette, imperdibile. Datazione delle incisioni fatte col quarzo tra i mille e i diecimila anni. Ci chiediamo come si siamo conservati fino ad oggi, visto che sono all’aria aperta, ma considerando che qui l’ultima volta ha piovuto sette anni fa forse aiuta.

La nostra guida, che racimola qualche soldo per continuare gli studi e diventare maestro di matematica, ci racconta della giraffa che è considerata un animale sacro perché con la testa può bucare le nuvole e richiamare la pioggia e del leone con in bocca una preda per propiziare la caccia. Entrambi sono raffigurati come mezzi animali e mezzi uomini perché rappresentano lo sciamano, ah ecco, annuiamo interessate, che durante la trance si trasforma in giraffa per entrare in contatto col divino, e in leone per richiamarne la forza.

Ci incamminiamo verso il parcheggio parlando di giraffe sacre, di pioggia e sciamani. Ma anche della bellissima struttura della biglietteria totalmente costruita con i coperchi di latta dei barili. E tutto un effetto di ferro ossidato che dialoga con il colore delle rocce. All’improvviso mi sembra di essere alla fondazione Prada.

Ci ributtiamo sulla strada polverosa e cominciamo a imbatterci in piccoli villaggi himba, le donne col torso nudo a mostrare i seni e coi capelli impastati di terra rossa, ci chiamano dalla strada per venderci le solite statuine di legno, i bracciali o anche solo per chiedere soldi. Nei giorni successivi andiamo a visitare un villaggio più grande e, ci garantisce la nostra guida, assolutamente autentico.

Ci imbattiamo appena arrivati in un guardiano di capre con una tuta verde, la canottiera della salute e un medaglione gigante al petto con il simbolo del dollaro, oro e brillanti. Come un rapper costretto a fare il pastore, si trascina con le infradito a farci vedere la capanna in cui dorme e risponde a monosillabi alla guida che cerca di estorcergli informazioni.

Intanto le donne, le ragazze e i bambini ci aspettano in cerchio. Davanti a ognuno di loro in bella mostra le statuine lignee, le collane, le bamboline che riproducono le donne himba. La guida ci racconta della tradizione del capo villaggio di sposare otto donne, ci assicura che tutte vanno d’amore e d’accordo in questo harem, e poi ci spiega il significato dei copricapi, delle collane, dei bracciali. Le donne sono bellissime. I loro costumi, i loro capelli sorprendenti. Non mi stupisce che suscitino un richiamo così forte per il turista, ma mi chiedo se questa tradizione resisterebbe se non avesse questo richiamo turistico, se non fosse fonte di guadagno. Ci chiedono se vogliamo che danzino per noi ma capiamo che non ne hanno nessuna voglia, che forse è una richiesta della guida per avere qualche dollaro in più, e diciamo di no, grazie. Danzate tra voi quando avrete da festeggiare qualcosa.

C’è ne andiamo con un po’ di amarezza, con la sensazione straniante di non poter distinguere il vero dal falso, la messa in scena da un reale tramandarsi di una cultura millenaria così ricca di fascino. Usciamo dal cerchio. Le donne e i bambini si alzano, ognuno mette la propria merce in un sacco di plastica, e si incamminano verso le loro vere capanne, qualche centinaio di metri più in là. Il villaggio si svuota, rimane un pentolone con il pap che bolle da ore, e spazzatura ovunque. Plastica, bottiglie di birra, stracci, sacchetti che svolazzano, vetri rotti, secchi, brandelli di coperte. I cani e le capre che si aggirano alla ricerca di qualcosa di commestibile.

Incontriamo Hilya a Outapi. Si sta scrivendo con Silvia da giorni per accordarsi su quando vedersi. Sembra complicato. Noi arriviamo venerdì sera. Lei il sabato mattina deve andare in chiesa. E allora aspettiamo nella ridente Outapi che si liberi per il sabato pomeriggio. Outapi è una cittadina polverosa a pochi chilometri dall’Angola, da un paio di giorni di città come queste ne abbiamo viste tante: un caotico andirivieni di macchine, gente a piedi, supermercati con pacchi giganti di farina, di zucchero, di biscotti; barattoli di maionesi da 30 chili, sacchetti di patatine al formaggio alti come una persona. Capre ovunque, cani scheletrici con tette penzolanti, maialini che frugano nella spazzatura in cerca di cibo, in attesa di diventare abbastanza grandi da diventare loro stessi cibo. All’improvviso mentre usciamo dal supermercato Hilya ci chiama che è già arrivata e che possiamo vederci.

Ci incontriamo davanti al suo negozio di bici. Lei è una della donne che stiamo sostenendo con il nostro crowdfunding. Sistema bici, le rivende, ha una squadra di bambini che prepara per gareggiare in competizioni di BMX, gareggia lei stessa in gare di mountain bike, una donna piena di energia e con un sorriso contagioso. Ci crede davvero che la bici possa cambiare le cose, intanto ha cambiato la sua vita e quella della sorella che lavora con lei, e questo è già tanto.

Ci porta a mangiare sotto un tendone della chiesa che raccoglie fondi per un coro. Le casse a palla diffondono le voci del coro in cerca di sostegno. È un pranzo tipico e noi siamo curiose. Su suggerimento di Hilya prendiamo del pap, dei fagioli un po’ brodosi e degli spinaci. Silvia si avventura ad assaggiare le larve della pianta mopane. Buone, dice. Ma ne mangia due e poi la vedo in crisi. Per loro sono una prelibatezza totale. Hilya le lascia per ultime e se le gusta a occhi chiusi.

Io mi sforzo di mangiare più che posso ma i sapori, le consistenze, tutto è davvero fuori dalla mia capacità di adattamento. La birra locale che ci offrono in un bicchiere di legno, spillata da un secchio per terra è il colpo finale. Acqua e farina di grano fermentata. Facciamo un brindisi con Hylia, la assaggiamo appena e poi ci guardiamo disperate.

Welcome to my lovely house.

Pedaliamo da Outapi a Okaphitu assieme a Hylia che ci porta a vedere il suo secondo negozio.

Dopo trenta chilometri ci apre il cancello di casa sua e piena di orgoglio ci invita ad entrare. Ci addentriamo in un ampio spiazzo di terra secca recintato. A sinistra c’è una casa in muratura che ci sorprende dopo i tanti villaggi di baracche in lamiera lungo la strada, al centro un grande albero, davanti all’albero due pickup da sistemare e uno scuolabus bianco anni cinquanta, il negozio di bici è un container che non capiamo come sia arrivato qui. In un angolo un minuscolo recinto con un piccolo maiale che cerca di attirare la nostra attenzione grufolando, starà lì dentro per un anno prima di essere mangiato. Una distesa di piccole angurie selvatiche buttate di fianco allo scuolabus saranno il suo unico cibo.

Un cane spaventatissimo si aggira nel cortile.

È il vostro cane?

Come si chiama?

Ridono. Tipo: ah perché si danno i nomi ai cani?

Mentre Hylia ci mostra la sua lovely house due bambini grigi di terra seguono i nostri movimenti con gli occhi sgranati, sembrano due statue di pietra, non parlano, non si muovono, come non fossero abituati a vedere esseri umani diversi dai loro parenti. Sono i figli della sorella di Hylia che però non vive qui. Mentre i figli di Hylia vivono in un’altra città con la nonna e a un certo punto sbucano due cugini. Siamo confuse. L’unica certezza è che questi bambini stanno tutto il giorno da soli.

Quanti anni hanno?

3 e 2, mi risponde Hylia

E rimangono qui soli? Chiedo la mattina dopo quando stiamo ripartendo dopo aver campeggiato tra le galline.

Mi guarda stranita, non c’è nessun pericolo qui e poi noi torniamo.

Ah ok poi tornate.

Hylia sale in bici e ci accompagna per venti chilometri, fino alla strada asfaltata. Sorride felice, ha due negozi, ha la sua bici, ha una casa in muratura e la prossima gara di mountain bike è probabile che la vinca lei.