Dopo quindici giorni di bici sulle strade della Namibia, io e Silvia ci siamo autonominate massime esperte di strade sterrate. Siamo delle vere e proprie scovatrici di corsie lisce. Gli occhi ormai si sono abituati a saltellare avanti e indietro a destra e sinistra, velocemente, come un predatore che capta il minimo cambiamento, noi prevediamo il terreno che si fa più molle e cedevole in alcuni punti, un principio di terreno ondulato, l’inclinazione o l’affossamento della strada che prevede sempre della sabbia ammassata, le insidie di una corsia che sembra liscia e compatta e invece è liscia e sabbiosa.

Se è vero che gli eschimesi hanno 99 parole diverse per definire il ghiaccio, quando finiremo il nostro viaggio noi avremo 99 parole diverse per spiegare le diverse consistenze del terreno.

Se intanto qualcuno sa chi ha inventato l’asfalto ce lo faccia sapere perché avvieremo una richiesta di santificazione appena rientreremo in Italia.

Di terra arida in terriccio, in sabbia, in sassaia, in tratturo, il clima si è fatto più caldo e siamo arrivate ai piedi dello Spitzkoppe, testa a punta, il Cervino della Namibia.

Qualche giorno fa mia sorella Chiara mi ha mandato una frase dalla biografia di Agatha Christie: Capita anche che una località non mi piaccia perché le colline hanno una brutta forma, e per me, invece, è importantissimo che la forma di una collina sia quella giusta. Mi ha fatto pensare a te, mi ha scritto.

Mi sono sentita in colpa da sempre, fin da bambina, quando qualcuno davanti a un paesaggio esclamava: ma qui è stupendo! E io notavo il dettaglio di un capannone industriale in un angolo della visuale o un albero secco o l’umidità che rendeva i colori spenti e se non era un dettaglio preciso era un disagio indistinto che ridimensionava gli entusiasmi altrui. Qualcosa strideva sempre. Un paesaggio, una casa, un stanza, un oggetto, per essere bello doveva essere perfetto. Stavo zitta per non farmi dare della difficile, quella che non sa godere delle cose, che trova il pelo nell’uovo.

Ma poi capita, sì capita, di arrivare in posto e trovarlo subito bello. Subito, perché la sensazione è immediata e poi, solo dopo, ci sarà modo e tempo di analizzare quella bellezza che mi ha investito così a tradimento.

Succede tra le rocce del Pondoks dove campeggiamo a ridosso di massi enormi sovrapposti a formare una montagna irregolare, con vuoti e pieni perfetti, pietre rosse per la luce del sole che sta tramontando. A sinistra lo Spitzkoffe, al centro della piazzola un albero bellissimo. Montiamo le tende e accendo un fuoco, la legna sa di incenso. Ogni cosa è come deve essere, il tepore che emanano le rocce, la temperatura dell’aria, la forma che compongono i massi col cielo e i cespugli attorno alle tende. Un semicerchio perfetto di protezione e intimità. Ci arrampichiamo per vedere il tramonto e poi mangiando al calore del fuoco e ci godiamo una delle stellate più incredibili mai viste.

Ecco basterebbe questo per dare un senso a questo viaggio, mi dico, un posto perfetto. Che ti fa sentire a casa. Che mette d’accordo il dentro di me col fuori di me.

Ma in realtà anche nei giorni successivi annoto altri momenti di bellezza.

Un flash mentre pedaliamo nel pomeriggio su uno sterrato compatto, che ci fa tirare il fiato, a destra la savana con le sue graminacee gialle a perdita d’occhio e sullo sfondo la schiena nera curva di un babbuino che corre. Tre minuti poi il babbuino scompare.

Due giraffe ferme sui loro colli altissimi, impassibili di fianco alla strada polverosa, che ci controllano con la coda dell’occhio. E noi restiamo lontane per non disturbarle. Dieci minuti e ripartiamo.

Infine gli elefanti che abbiamo inseguito per tre ore con la nostra guida Calvin, come Calvin Klein ci dice. Calvin che guida come un pazzo sulla sabbia nel greto del fiume, che riesce a datare la cacca degli elefanti con una precisione sospetta, mmm… three hours, sentenzia, e alla fine scendiamo dalla macchina che si impantana nel fango e proseguiamo a piedi per un tratto e tutto quello che riusciamo a vedere sono dei piccolissimi elefanti all’orizzonte.

Il babbuino, le giraffe e i piccoli elefanti. Animali liberi, ancora liberi, non confinati in un parco, non disponibili per il nostro vorace bisogno di catturarli anche solo con una foto. È andata così, dice Calvin allargando le braccia dispiaciuto.

Io ripensandoci sono felice che oggi non siano stati disturbati da nessun turista, che camminino lungo il fiume a mangiare le foglie di acacia e continuino a farlo anche senza il nostro sguardo che li vede.

La Namibia a tratti è durissima, arida, desolata. Baracche e spazzatura. Cani scheletrici e camion stipati di capre, una sopra l’altra.

Ma la bellezza si insinua anche là dove sembra più difficile. Conservo gelosamente queste immagini perfette, sono convinta che anche Agatha Christie le avrebbe trovate bellissime.

 

Foto @ PietroSuglia / Silvia Gottardi