Il drone si alza sempre più alto. La township di Swakopmund si estende a perdita d’occhio, le baracche sghembe e rappezzate, costruite coi rifiuti recuperati dalla discarica cittadina, metallo ondulato, legno, tela e plastica, viste dall’alto sono organizzate dentro un ordinatissimo reticolo di quadrati, in ogni quadrato venti baracche. Dall’alto tutto sembra rientrare in un assetto progettato con cura, un ordine, una pulizia visiva rassicurante. Da dentro, dal basso, è un caos organizzato quel minimo per sopravvivere. Qui vivono 20 mila persone, tutta Swakopmund sono 40 mila abitanti. Quindi la metà esatta vivono in queste baracche. DRC la chiamano, Democratic Resettlement Community, è stata fondata nel 2001 come comunità di reinsediamento temporaneo per le persone in attesa di un alloggio sovvenzionato. Temporaneamente da vent’anni, metà della popolazione di una delle principali città della Namibia vive in un mondo a pochi chilometri dal centro ma lontano galassie per ricchezza e stile di vita.

Passare dall’abbondante colazione in un caffè gremito di signore distinte che parlano in tedesco, i retaggi dell’antica colonizzazione sono sotto i nostri occhi di continuo, ai bambini lasciati soli per strada, col moccio e i vestiti logori che non si sa più di che colore siano, è impressionante. Appena ci fermiamo veniamo assalite da bambini prima e adulti poi che implorano sweet sweet e allora noi andiamo a comprare un enorme pacco di caramelle e le distribuiamo equamente manco fossimo i reali coi sudditi imploranti. No, non trovo nessun modo per non provare disagio, frustrazione e impotenza.

Daniela è una delle responsabili del progetto Happydu, una scuola che sorge nella periferia di Swakopmund, a pochi centinaia di metri dalla DRC. A lei facciamo mille domande, sul progetto ma anche sulla situazione in Namibia: come fai ad avere fiducia, a credere che si possa cambiare qualcosa? Non vi sentite mai sconfortati?

Ci racconta dei pasti dei bambini, ogni giorno un menù diverso, piatti semplici ma fuori da qui si mangia solo una volta al giorno, una pappa fatta con una farina di mais arricchita di vitamine, super maze meal, i supermercati sono pieni di sacchi formato famiglia. Sì, non è male questa pappa, dice Daniela, ma tutti i giorni mangiano sempre e solo quello, quando non addirittura un sacchetto di patatine e via. Costa meno e non si deve neanche cucinare. Qui da noi oggi c’è una pastasciutta, vedete? Dice, mentre la cuoca ci apre il pentolone.

La cucina e tutto il centro sono pulitissimi e ordinati in maniera che stride col fuori da qui. Io chiedo: ma perché la povertà è spesso accompagnata da questo degrado assurdo, perché dentro le baracche c’è la spazzatura, perché non ci può essere cura anche se sono poveri? O sono così disperati che è già tanto se sopravvivono? Daniela dice che sì, questa è una cosa su cui loro puntano molto, infatti è fondamentale insegnare ai bambini a mettere in ordine ognuno il proprio pezzetto e che si abituino già da piccoli al rispetto delle persone e delle cose. Sai loro erano nomadi in origine e forse per quello non gli importava di avere cura di un posto che poi abbandonavano. Forse gli è restato quel retaggio lì.

Fa freddo a Swakopmund, faceva freddo a Walvisbay, il mare porta una corrente gelida. Fa freddo nei B&B e la sera sotto i piumoni ci mettiamo un’ora a scaldarci. Quando chiediamo perché faccia così freddo ci rispondo it’s winter time. Eh, ho capito ma allora perché costruite case come se foste a Miami, con le vetrate enormi e i serramenti sottili a scorrimento. E i ristoranti sono solo all’aperto. Se di notte va sotto zero e non volete usare il riscaldamento perché è troppo costoso, siamo pur sempre in Africa anche se sembra la Normandia, non avete mai pensato a dei muri spessi e delle finestre piccole? Avete le foche e le balene io valuterei dei cambiamenti.

Silvia mi promette che andando verso nord troveremo più caldo, io passo giorni sognando dieci minuti di afa milanese per scaldarmi le ossa.

Con Daniela ci stringiamo nelle nostre giacche a vento, anche lei non si è abituata a questo freddo nonostante sia qui da qualche anno. Le chiedo delle donne, anche qui, soprattutto qui, sono spesso in pericolo, spesso in fuga da uomini violenti, e se non sono violenti, sono assenti o lontani per lavoro, e allora, da loro, solo dalle donne, dipende la sussistenza del nucleo famigliare. Nonne, mamme, zie, bambine che si prendono cura dei fratelli più piccoli.

Chiacchierando ci viene l’idea di un progetto donne e bici, perché qui la bici la usano in molti per andare a lavorare in città, o per andare a scuola, anche nella township molti bambini pedalano su bici scassate, senza pedali, piene di ruggine. Fantastichiamo. Sarebbe bello insegnare a un po’ di donne a pedalare e poi regalarle delle bici. Potrebbero essere più indipendenti, più libere, potrebbero risparmiare i soldi del taxi per andare in città.

Dai pensiamo per davvero.

All’improvviso una piccola cosa che si potrebbe fare.

Forse questo è l’unico modo per non perdere la speranza, smettere di guardare la vastità di ingiustizie e insensatezze e restringere la prospettiva. Bambini mettete in ordine i vostri quaderni e lavatevi le mani la pastasciutta è pronta.

 

Foto @ Pietro Suglia