Il tavolino è proprio sotto al palco in pole position e arriviamo giusto al pelo per l’inizio dello spettacolo. Il cameriere arriva con due bicchierini e una caraffa di vino fino. Lei ha un vestito a balze con la stoffa a pois, i capelli tirati, un trucco non esattamente sobrio. Lui ha un pantalone attillato nero su delle cosce massicce, la camicia bianca sbottonata fino a metà petto con i peli corti, regolati, i capelli ingellati indietro, lucidi. Il chitarrista è vestito in modo neutro, come se si presentasse da subito come quello un po’ defilato. L’uomo col calzone attillato e i capelli come un gitano, comincia a cantare stando seduto, un canto in falsetto, lamentoso. Dopo un paio di pezzi si alza lei e comincia a picchiare come un’ossessa i suoi tacchi sul palco di legno; prima con un ritmo lento e poi via via sempre più indemoniato. Non so se hanno il metallo come quelli da tip tap le scarpe da flamenco ma il rumore è assordante, io e Silvia ci guardiamo frastornate, beviamo il vino fino per prendere con filosofia il fatto che probabilmente perderemo l’udito.
Io comunque vorrei credere a qualcosa solo il dieci per cento di quanto la ballerina crede alla sua interpretazione; lo sguardo spiritato, gli occhi spalancati e poi strizzati e sofferenti e intanto i piedi picchiano che sembra una danza tribale ma con l’abito a balze e la faccia che invece rimandano alla messa in scena di una storia sentimentale e struggente. Il chitarrista, emancipato dall’incubo delle passioni come insegna Battiato, arpeggia distaccato, atarassico, si capiva già da come era vestito.

Jerez è il flamenco, il vino fino e le ciclabili fino in centro, che percorriamo con le nostre bici. Finalmente abbiamo sistemato il cambio in video chiamata con Oscar, un ciclo meccanico; l’inglese non lo parla quasi nessuno qui, lui manco una parola, ma ce l’abbiamo fatta.
In compenso lo spagnolo di Silvia ha raggiunto il top con mañana molto mañana, mentre cerca di spiegare al receptionist che vogliamo partire molto presto, domani.
E molto presto partiamo per Siviglia passando vicino al parco naturale Doñana, lungo il fiume Guadalquivir. E fotografiamo i nidi di cicogne che sono su tutti i pali della luce, che per qualche motivo le cicogne gradiscono più degli alberi e poi a decine su una vecchia chiesa in mezzo alla campagna: le cicogne adulte svolazzano avanti e indietro atterrando un po’ maldestre, i piccoli chiamano.
Poi a pranzo arriva un caldo disumano e quando cerchiamo riparo sotto l’ombra di un boschetto veniamo letteralmente mangiate vive dalle zanzare. Scappiamo ma ci aspetta il sole cocente e arrivare a Siviglia, nonostante la tappa in un bar a bagnarci la testa, è veramente dura.
Di notte torniamo dal centro a piedi in albergo per sciogliere un po’ le gambe attraversando piazze fiorite e vie strette, dopo aver mangiato tapas in un posto consigliato. Buone ma siamo quasi arrivate al capolinea con le tapas.

Il giorno dopo abbandoniamo le bici nel garage dell’albergo e visitiamo il Real Alcazar, con le solerti guardie che mi riprendono perché in un cortile, di spalle rispetto alle altre persone, che sono comunque a una decina di metri, abbasso la mascherina sotto al naso per mandare un vocale. Poi a bere l’aperitivo puoi stare senza mascherina in mezzo a decine di persone che bevono, urlano, mangiano. Un giorno qualcuno mi spiegherà questa roba assurda. Non me ne faccio una ragione. Anche fare i 36 giri scale che portano in cima al campanile del Duomo con la mascherina sulla faccia è piuttosto folle. Per fortuna in bici questa tortura ce la possiamo risparmiare.

Per andare a Cordova prendiamo un treno che ci fa saltare una parte di statale pericolosa. Ma anche il resto della strada è molto brutto e lo pedaliamo tutto oltre la linea bianca della corsia di emergenza, in fila indiana, in un sali e scendi di colline in mezzo ai frutteti.

Il padre di un’amica, appassionatissimo di Giappone da quando era bambino, sostiene saggiamente che lui in Giappone non ci andrà mai. Può un paese essere mai all’altezza di un sogno, di un’utopia, di una leggendaria conoscenza costruita in trenta, quarant’anni?
Cordova per me è una poesia di Garcia Lorca, quattro, cinque pennellate di colore denso. Lontana, sola, cavallina nera, grande luna. Cordova è una musica antica, un viaggio misterioso che non condurrà da nessuna parte. Cordova sono io a quindici anni piena di sogni struggenti.

Ora siamo su una pista ciclabile che ci porta verso il centro, stiamo entrando in città.

Cordova. Vicina. Bici nera. Sole grande che tramonta.