Questa volta il bagaglio l’ho sbagliato completamente. Ci ho messo giorni e mille ripensamenti perché nel bike packing ci sta poco o niente ma quel poco sono pure riuscita a sbagliarlo. Non ho portato l’iPad perché non volevo del peso in più e poi mi sono ritrovata a scrivere sulle note dell’iPhone, e no, la dettatura vocale non funziona così bene come credevo. Ho portato due canottiere e una maglietta per la sera ma le canottiere non le ho mai usate perché la sera non fa così caldo e anche di giorno alla fine è più comoda la maglia. Ho dimenticato, non so come, la seconda maglia da ciclismo e quindi ogni pomeriggio lavo di corsa l’unica che ho per farla asciugare per il mattino dopo. Ho portato una canotta da bici che non ho mai usato perché poi la canotta in discesa non si può chiudere sul collo e prendo freddo. Ho portato quattro paia di mutande ma tanto quella che metto la lavo ogni sera e quindi ne bastava una, al limite due. Il pantalone lungo per la sera è di cotone leggerissimo che quando esce dal bike packing è da buttare via. È l’effetto sgualcito, è voluto, dico a Silvia. È l’imprevisto del viaggiare in bici. È il bello del viaggiare in bici. È il brutto del viaggiare in bici.

La Mesquita di Cordova è forse la cosa più sorprendente di questo viaggio, almeno fino ad ora. Le foto non rendono lontanamente la sensazione labirintica che si prova a camminare tra le 856 colonne della cattedrale, tra gli archi sfalsati che creano l’effetto ottico di un frattale, la sensazione irreale di essere in un quadro di Escher.

Silvia è stressata perché stasera c’è la semifinale di Eurolega tra l’Armani e il Barcellona. Deve trovare un bar dove trasmettano la partita, tanto in Spagna sono tutti malati di basket non sarà difficile. Qualche ora dopo piagnucola disperata col gestore di un bar che cerca disperatamente di aiutarla ma non c’è niente da fare, si può vedere solo a pagamento su qualche canale che lui non ha e comunque qui a Cordova nos gusta mas il futbol. Alla fine due santi di amici da Milano chiamano con WhatsApp e inquadrano lo schermo del televisore. Io allibita. Lei che mi dice: non puoi capire.

Dopo il gestore del bar che si danna lungamente e inutilmente per aiutare Silvia, inanelliamo una serie di stronzi che mi obbligano a rivedere la mia teoria dell’inizio del viaggio sugli spagnoli, quella secondo cui sarebbero degli italiani simpatici. No, possono essere anche molto antipatici. Ma molto. Lo spagnolo come lingua invece per ora rimane simpatica, certo con un sacco di false friends che ogni tanto ci disorientano, a parte i classici salida e aceite, per quelli eravamo già pronte, ma ci stupiamo ogni giorno con parole stupende, tipo compañerocompañera, che tu sei alla biglietteria di un museo o alla reception e chiedi un’informazione e la tizia ti dice: un momentito che arriva il mio compañero e tu anziché il collega ti aspetti che dalla stanza accanto sbuchi fuori Che Guevara.

Dopo una giornata delirante per arrivare sul lago di Iznajar, che poi è quasi secco ed è una delusione completa, parto con l’intenzione di prendere un treno a metà tappa. È troppa lunga, fa troppo caldo. Sono stanca. Quando arriviamo nella deserta stazione di Loja però il treno per Granada è appena partito e il simpaticissimo addetto alla stazione, che ci aggredisce che non siamo nemmeno scese dalla bici perché non abbiamo messo la mascherina, ci dice con un sorrisino sadico che il prossimo è alle 21,30. Sono le 12. È domenica. Sul monitor scorrono gli orari dei treni mentre lo stronzetito se ne sta lì col suo sorriso compiaciuto.

Silvia cerca di confortarmi dicendo che al prossimo paese cerchiamo un pullman, ma nel prossimo paese c’è solo un bar dove dei vecchi giocano a domino e un gestore fa finta di non capire e bofonchia cose incomprensibili.

Questo vuol dire viaggiare in bici. Sbagliare bagaglio, avere freddo, avere caldo, perdere un treno, non avere alternative, essere stanchissima con la testa che bolle per il caldo e dover trovare le forze. E alla fine in qualche modo trovarle. Nella mia vita di tutti i giorni, a Milano, è impossibile fare esperienza dell’esasperazione, della noia, della fatica fisica, del limite da superare. Ho sempre mille scappatoie. Come tutti.

Quello che non ti uccide ti fortifica.
Questi modi di dire vuoti e insensati ogni tanto si riempiono di senso invece, sintetizzano una cosa vera. Hai alzato l’asticella della tua resistenza, sei più forte, più consapevole della tua possibilità di reggere col corpo e con la mente, scopri che esiste un posto in cui si nascondono le risorse inimmaginabili e questo ti da un po’ di speranza.

Il cielo intanto si è velato e ci da un po’ di tregua dal caldo torrido, saranno le madonne che ho tirato giù, ripartiamo dopo una pausa pranzo in cui sfamiamo tutti i gatti dell’Andalusia e ci dirigiamo verso Granada.