Ci risiamo. È così ogni inizio viaggio. Comincia il balletto che durerà almeno un paio di giorni per trovare un equilibrio tra Silvia che parte in quinta e io che tengo il freno a mano tirato. Lei che deve ridimensionare in piccolo le sue irrealizzabili aspettative, faremo cento chilometri al giorno, io che devo ridimensionare in grande la mia aspettativa di non farcela, dopo venti chilometri sarò morta.

È così anche in questo viaggio super ambizioso in Namibia. Cresce la tensione sin dalle prime ore tipo pentola a pressione che comincia ad andare in temperatura, ma facciamo finta di niente. Silvia continua a credere che faremo cento chilometri al giorno, campeggeremo quasi tutte le sere, spaccheremo il mondo in quattro grazie alla forza dei suoi desideri.

In realtà è la Namibia che ci spacca in quattro fin dalla prima notte in tenda, abbiamo comprato anche una giacca a vento maculata in un mall di Windhoek ma fa troppo freddo la notte per campeggiare e geliamo fino al risveglio. La mattina la mia pentola a pressione è già arrivata a 1 bar, Silvia minimizza. Ma dai sarà stata una notte particolarmente fredda, non sarà mica sempre così.

Le strade hanno un fondo sconnesso, sabbioso fino ad arrivare a punti di sabbia vera e propria, lunghi tratti di tôle ondulée, le piccole onde di terra che si formano nel terreno e che fanno saltare il cervello nella testa, sassi, spaccature, un incubo. E sono lingue di terra bianca larghe, larghissime, e lunghe, lunghissime, dritte che le vedi disegnarsi a perdita d’occhio e per non perdere la speranza di arrivare devi fare un esercizio zen e non pensarci. Gli occhi cercano in continuazione i sentieri più lisci che si nascondono tra le insidie della strada e continuiamo a cambiare lato nella speranza di scorrere più veloci. E ci sono le auto ovviamente: suv, jeep, pulmini di turisti che sfrecciano su entrambi i lati a 120 all’ora alzando nuvole di polvere. Qualcuno ci ha detto che in Namibia non piove da sette anni. E poi il vento, che ci fa respirare ma che arriva sempre contro a rallentare la nostra corsa già difficile.

Insomma il quarto giorno anche la pentola a pressione di Silvia esplode. Frustrazione, giustificazione, scuse e poi la resa. Non riusciremo mai a fare 100 chilometri al giorno con queste condizioni. Io ero lì che l’aspettavo al varco. A questo punto possiamo ragionevolmente pensare a una cosa fattibile e ricalibrare secondo le nostre possibilità il viaggio, no?

Silvia piagnucola che lei è una giocatrice di basket che per lei si vince o si perde e che ridimensionare è una sconfitta. Io controbatto chiedendole cosa voglia dire sconfitta, io pedalare anche 50 km al giorno in Namibia la vedo come una cosa pazzesca, comunque. Insomma alla fine sembra convincersi che sì bisogna accettare i propri limiti, che non deve dimostrare niente a nessuno. Speriamo.

Ripartiamo pedalando nella vasta pianura asciutta, Namibia, sì, si traduce così, io mi sento più forte di quando sono partita, tutto sommato ce la faccio anche se sono poco allenata, Silvia un po’ immalinconita, ma la strada oggi è meglio del solito, battuta e compatta, per 20 chilometri filiamo via veloci e ci ringalluzziamo. Poi ricominciano i sassi e il traffico. Abbiamo cominciato a catalogare gli automobilisti che incrociamo.

Ci sono gli ignari, quelli che non ci vedono o se ci vedono non materializzano nella loro testa nessuna connessione ciclista-polvere-rallentare, niente, a volte addirittura passano a mille all’ora e ci salutano. Poi ci sono gli stronzi che ci passano a dieci centimetri a tutto gas e quelli proprio stronzi plus che al mio segno di rallentare ci fanno il dito medio. Mi sforzo di pensare che sono local e stanno lavorando, hanno condizioni svantaggiate e vite non proprio semplici, e vedono ste due bianche che vanno in vacanza in bici che occupano la loro strada. Ma al momento volano solo maledizioni. Poi ci sono quelli gentili che allargano la loro traiettoria e rallentano. E poi ci sono i gentili partecipi che allargano la loro traiettoria, rallentano e ci fanno pollice in su o ci salutano con entusiasmo. Alcuni frenano per chiedere se è tutto ok. Una famiglia di francesi si è fermata poco più avanti aspettandoci con un boccione di acqua in mano per riempirci le borracce.

E quindi ci siamo date un limite e facciamo dei tratti in macchina, buttando su le bici, spolverandoci di dosso la polvere, pulendoci le mani con un disinfettante al melone, idea geniale il melone per un disinfettante, e allungandoci così a vedere posti che altrimenti resterebbero irraggiungibili. E quindi con 120 chilometri che non avremmo mai potuto fare in bici, siamo arrivate a Sossusvlei.

C’è qualcosa di magico nel vedere materializzarsi davanti agli occhi un’immagine vista mille volte sulle banche immagini, o nei reportage di viaggio, l’hai immaginato, prefigurato, e ora ci sei in mezzo, ti muovi in una dimensione reale eppure irreale allo stesso tempo. Perché nella Deadvlei sembra di essere atterrati su un altro pianeta, su Marte, sulla crosta lunare, in un sogno. Il bianco del terreno, il nero degli alberi sul cielo azzurro e le dune rosse come fondale. Quale serie di coincidenze ci sono volute per mettere in scena un simile spettacolo?

Scopro che questa era un’oasi di acacie prima che il corso d’acqua venisse deviato dal movimento delle dune. Ora questi alberi morti, quasi fossilizzati, sono delle sculture naturali. Morti eppure vivi. Pieni di passato, che vibrano di storie da raccontare. Morti eppure non muti. Tutto parla in questo arido deserto.

Ricominciamo a pedalare il giorno dopo, il vento e così forte che butta giù le bici. Silvia ha promesso di accettare i propri limiti e che la natura possa essere più forte di noi. Io ho ancora negli occhi lo stupore di ieri. Buttiamo le bici sulla macchina per qualche chilometro aspettando che il vento si plachi.

Oggi proviamo a lasciare che il viaggio ci insegni ad accettare gli imprevisti. Silvia mi guarda e dice: proviamoci.